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Lettera di Carlo Sottile, coordinamento Asti-Est, pubblicata su atnews.it

L’altro giorno, rispondendo ad una delle poche notifiche lasciate attive sul mio smartphone, mi sono imbattuto in una fotografia straordinariamente interessante per i tempi che corrono. Nel cortile della palazzina di via Allende, seduti ad un tavolo riccamente servito di frutta, si vedono il sindaco Brignolo, un assessore e alcuni consiglieri. Hanno lo sguardo di chi ascolta con interesse. Era il 16 aprile 2013, a tre anni circa dalla “occupazione” della stessa palazzina, da parte di 6 famiglie sfrattate e senza alternativa alloggiativa, nonché da un gruppo di volenterosi militanti della giustizia sociale. Ma cosa stavano ascoltando quei rappresentanti del Comune cittadino?

In quello stesso cortile, prima di quella data, un noto costituzionalista, Ugo Mattei, aveva tenuto unamconferenza sui “beni comuni”, argomentando che in quella particolare situazione – una proprietà del demanio, gestita da una comunità di famiglie – avevano preso “corpo” quegli elementi che definiscono un “bene comune” nonché le condizioni per gestirlo. Pertanto, aveva precisato Mattei, quella occupazione poteva bene intendersi come una “azione a vocazione costituente” e quella palazzina poteva bene annoverarsi tra le “Cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona» (“beni comuni”, definizione della Commissione Rodotà).

Lo so perché c’ero, quel 16 aprile 2013 i rappresentanti del Comune hanno appreso parole costituzionalmente orientate e ascoltato le ragioni e le circostanze di luogo e di tempo che avevano spinto quella comunità di famiglie alla “occupazione” di un edificio di proprietà del demanio, lasciato da anni in abbandono o meglio, al suo puro valore di scambio. Non è stata una leggera chiacchierata e neppure un semplice scambio di cortesie, ma l’invito, ben argomentato, ai rappresentanti del Comune, di fare il loro dovere di rappresentanti dei cittadini. Ricordo che quell’ascolto, finito ovviamente in bicchierata, aveva suscitato delle aspettative.

Quanto fosse ben disposto quell’ascolto lo si è visto un anno dopo, quando il governo Renzi ha approvato la legge 80/2014. La legge che ha congedato il welfare abitativo novecentesco, ha rilanciato, con l’housing sociale, la rendita immobiliare, ha criminalizzato la povertà, negando l’allacciamento delle utenze alle famiglie “occupanti”, ed eliminando fin nel lessico il lemma “casa popolare”. Non una voce critica si è levata da quella parte. Né allora né in seguito, con Amministrazioni di diverso colore politico, fino alla presente.

Nel 2014, la decomposizione della legislazione novecentesca, scritta per tutelare il diritto all’abitare di operai e impiegati, era già molto avanti. Si era ormai trasformata in strumento di esclusione. Nelle legislazioni regionali erano già stati aggiunti, o sarebbero stati aggiunti di lì a poco, requisiti di accesso ai bandi per le case popolari, sempre più selettivi e sempre meno attinenti la condizione sociale di un senza tetto o di una famiglia esclusa dal mercato immobiliare, per la modestia o precarietà dei suoi redditi.

Intanto l’occupazione della palazzina di via Allende, in assenza di esplicite richieste di sgombero da parte della proprietà, è stata “spenta” a colpi di processi ai suoi protagonisti, ma ancor più dalle pratiche escludenti delle amministrazioni, come quella di sovrapporre sistematicamente gli effetti del reato di “occupazione”, ai diritti di cittadinanza delle persone e delle famiglie. Cosicché, paradossalmente, in numerose sentenze, sono i stati i giudici a riconoscere quei diritti, riducendo le pene e mettendo in evidenza lo “stato di necessità” degli “occupanti. Siamo adesso nel 2021, quella palazzina di via Allende, con gli accessi impediti per ordine pubblico, è tornata ad essere quella che era prima del 2010: vuota e con il cortile divorato dalle sterpaglie, ridotta al suo valore di scambio, dunque in attesa di essere venduta.

La cultura costituzionale, è stata praticamente assente in tutta questa vicenda, durata 10 anni. Larghissima parte della “rappresentanza” in Consiglio Comunale, che l’ha in vario modo vissuta, ha sottoscritto questa assenza. Non solo favorendo procedure amministrative che hanno reso inafferrabili agli “occupanti” i diritti di cittadinanza, come già ricordato, ma mostrando ai cittadini tutti, in fatto di esercizio del diritto di proprietà, di essere rimasta pervicacemente ferma al codice napoleonico. In altri termini, la proprietà pubblica e privata è “senza se e senza ma”, e soprattutto senza la funzione sociale che le è invece riconosciuta (a quella pubblica) o imposta (a quella privata) dagli art. 41, 42, 43 della Costituzione.

In quanto ai “beni comuni”, sono degli illustri sconosciuti. E i lavoratori del Comune ? E i loro funzionari di grado più elevato ? Purtroppo, da quella parte, non sono state rese pubbliche dissociazioni. Ma forse oggi è chiedere troppo.
Non è andata così dappertutto. A Napoli, nel luglio del 2011 è stata votata una delibera in cui si legge che i “beni comuni” sono funzionali alla effettiva tutela dei diritti fondamentali (art. 2 e 3 della Costituzione), sono di appartenenza collettiva e sociale, come l’acqua, il lavoro, i servizi pubblici, le scuole, gli asili, le università, il patrimonio culturale e naturale, il territorio, le aree verdi, le spiagge.

Più recentemente sono pervenute sentenze della Corte Costituzionale, accompagnate da analoghe sentenze di giudici di tribunale ordinario, che hanno dichiarato inammissibili, in sede di requisiti per l’accesso ai bandi per le case popolari, sia la richiesta di documenti che attestino l’assenza di proprietà immobiliari per gli stranieri, sia sopravvalutazione fino a 10 anni della durata della residenza di chi chiede l’accesso.

Dunque qualcosa è accaduto, che dovrebbe scuotere il cieco conservatorismo delle rappresentanze politiche della nostra città. E sarebbe l’ora, visto che il fabbisogno abitativo, in relazione all’inasprirsi delle disuguaglianze sociali, si fa sempre più incontenibile: al presente, sul piano nazionale, sono 650.000 famiglie nelle graduatorie dei bandi e sono 50.000 le sentenze di sfratto all’anno. E sarà ancora peggio, se non si cambia rotta, quando cesserà l’effetto calmierante dei Dpcm del Governo, il blocco degli sfratti in particolare.

Carlo Sottile
per il Coordinamento Asti-Est

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