di Danilo D’angelo
Tommaso, quando seguì la sua vocazione e scelse di diventare frate Francescano, passò alcuni anni in Italia, prima a Roma e poi a Firenze. Per cui parlava un ottimo italiano.
Lì seduti sugli sgabelli di plastica del chai shop sorseggiando il nostro tè aromatizzato (masala chai, in hindi) cominciammo una strampalata conversazione, fatta di luoghi comuni sull’Italia e sull’India in cui lui si divertiva a prendere in giro quelle che, secondo lui e molti indiani, sono le nostre stranezze. Forse non è molto fine parlarvi di certe cose, ma alcune differenze culturali tra popoli si evidenziano nelle piccole cose quotidiane che, forse per un certo senso della decenza, difficilmente vengono nominate.
Ma è proprio questo il punto, il diverso senso della decenza tra una cultura e un’altra. Ciò che in alcuni Paesi è normalità in altri viene considerato assurdo. Come, ad esempio, il fatto che noi ci soffiamo il naso in un fazzoletto; per gli indiani è strano che ci portiamo in tasca il prodotto del nostro naso. Oppure che usiamo le posate per mangiare, mentre loro amano mescolare le pietanze con le mani. Dicono che sarebbe impossibile ottenere lo stesso impasto e, quindi lo stesso gusto, con le posate. Altrettanto ritengono strano l’utilizzo della carta igienica, quando loro usano lavarsi abbondantemente. C’è addirittura un particolare tipo di lota – termine generico per indicare un contenitore – che riempiono d’acqua e tengono nel bagno proprio per quella funzione.
Una volta ebbi il piacere di essere ospite a cena a casa di Anand Sarabhai, un biologo molecolare indiano che fece parte della squadra di Francis Crick quando, assieme a James Watson decifrarono la doppia elica del codice genetico, vincendo il Premio Nobel per la medicina nel ’62. La casa di Anand non era niente male, visto che era la famosa “Villa Manorama” (il nome di sua madre) progettata nientemeno che da Le Corbusier nel 1951. Ebbene l’architetto svizzero pensò addirittura a una nicchia nel bagno atta proprio a contenere quella particolare lota. Una volta lessi un libro scritto, se non mi ricordo male, da un avvocato indiano e da sua figlia nel quale elencavano tutte le differenze di questo tipo tra indiani e occidentali. Mi ricordo che tra le varie stranezze annoverava lo stupore che una alta dignitaria indiana, invitata a Londra durante l’occupazione britannica, provò nel non trovare, nelle dotazioni del bagno, l’apposito strumento che in India si usa per togliere i calli dai talloni, tanto da definire “barbari” gli inglesi.
Tra noi e Tommaso ci intendevamo benissimo, visto che avevamo entrambi trascorso diversi anni in ambedue i continenti. Quindi non ci prendevamo troppo sul serio, sapendo che ciò che è strano per l’uno è la normalità per l’altro. Ci rendevamo conto, però, che queste diversità stavano scomparendo. Ormai la globalizzazione, ma sarebbe più corretto chiamarla “occidentalizzazione”, stava livellando tutto; solo per citare quanto detto in precedenza, in India tutti usavano la carta igienica e i fazzoletti, molti iniziavano ad usare le posate – soprattutto tra la classe media emergente – il masala chai era diventato una rarità sostituito dal caffè. Insomma il detto “Paese che vai, usanza che trovi” stava diventando sempre più il segno di un’epoca passata. E così, tra questi discorsi in cui rivangavamo i bei tempi andati, dove viaggiare significava muoversi nel tempo più che nello spazio, le ore trascorrevano veloci e ce ne rendemmo conto solo dallo sguardo truce del chai wala che non vedeva l’ora che liberassimo i suoi sgabelli per far spazio agli altri avventori. Nei giorni successivi capitò che rincontrassimo casualmente Tommaso per le vie di Leh, mai incontri combinati e sempre contatti sporadici e più o meno superficiali: si parlava del più e del meno, si sorseggiava chai o si facevano quattro passi insieme. Nulla di più.
Passarono degli anni e di Tommaso più nessuna notizia. Pochi mesi fa andammo in Kerala cercando gli angoli non ancora rovinati dall’occidentalizzazione, dove il turismo di massa non era ancora arrivato e, dopo un po’ di girovagare, ne trovammo uno. Un paesino di pescatori con le case sparse nella jungla come era normale una volta in tutta l’India, con una spiaggia molto bella e lunga. Un posto tranquillo dove gli uomini indossano ancora il dhoti – una sorta di gonna che possono lasciare lunga fino ai piedi o raggruppare intorno ai fianchi in modo da accorciarla e renderla più pratica – abbigliamento quasi scomparso ultimamente per lasciare posto ai pantaloncini o ai calzoni.
Trovammo una sistemazione presso una famiglia che ci alloggiò in una casetta all’interno del loro cortile, composta da una stanza con il bagno e una piccola veranda tutta nostra.
Una sera il padrone di casa, Binoy, ci invitò per festeggiare il compleanno della figlia di cinque anni. Cerchiamo sempre di evitare certe cose perché in India partecipare a eventi simili vuol dire vedersi sfidati a finire tutto quello che di commestibile ci può essere sulla tavola che, per il 70%, è composto da dolci così dolci, ma così dolci che se non li avete mai assaggiati non potete immaginarvi. E io e Cristina non mangiamo dolci, per cui figuratevi con quale sorriso di circostanza accettammo l’invito. E immaginatevi anche l’espressione stupita che si disegnò sui nostri volti quando, tra i commensali, scorgemmo Tommaso. Sempre la solita coincidenza. Che ci fai tu qui? «No, che ci fate voi qui. Io conosco Binoy da quando eravamo ragazzini e sono originario di questo villaggio». Dopo essere stato male per tutto il giorno dopo, come da copione, mi rincontrai altre volte con Tommaso, raccontandoci come avevamo passato gli anni in cui non ci eravamo visti. E tutto prese una piega diversa. Tommaso si era smonacato.
Devo dire che non rimasi impressionato dalla sua decisione, mi impressiono sempre di più quando sento che qualche ragazzo o ragazza decide di prendere i voti, soprattutto in un mondo come l’attuale, dove la condizione spirituale è raramente contemplata tra i valori dell’essere umano. Non che io sia particolarmente favorevole ad abbracciare una religione, qualunque essa sia, anzi. Infatti, forse proprio per questo, non resto impressionato quando sento che qualcuno è tornato alla vita secolare. Però i frati francescani mi sono sempre stati particolarmente simpatici, credo perché il messaggio di Francesco lo sento “vero”, in qualche modo vibra dentro il mio essere. Ho sempre apprezzato lo spirito critico con cui i francescani si sono posti nei confronti della Chiesa. Per questo m’incuriosì molto la decisione di Tommaso.
«I motivi sono diversi. Per esempio non ce la facevo più a sopportare le ingiustizie che vedevo commettere giorno dopo giorno. Sono stato in missione in diverse parti del mondo, dopo che ci siamo conosciuti: Sierra Leone, Angola, Papua Nuova Guinea e ovunque mi sono sentito tradito dalla mia stessa Chiesa. Vedevo aiuti arrivare da tutte le diocesi del mondo, soldi, vestiti, generi di prima necessità raccolti con grande fatica dai fedeli di tutto il mondo scomparire nelle tasche dei nostri superiori.
Medicinali destinati ai bisognosi essere rivenduti a cifre altissime; derrate alimentari vendute ai signori della guerra locali che li davano al miglior offerente che, ovviamente, non era chi ne aveva disperato bisogno. I poveri, gli affamati, i malati nei nostri campi continuavano a morire, la maggior parte per malnutrizione e dissenteria. I fedeli dovrebbero saperle queste cose.» Non c’era modo per fare qualcosa? «E perché credi continuassero a spostarmi da una missione all’altra? Sai quante volte mi sono lamentato con il mio superiore di turno, quante volte ho denunciato queste ingiustizie al suo superiore? E cosa credi che abbia ottenuto? Solo di essere spostato da un posto ad un altro peggiore. Speravano, in qualche modo, di fiaccarmi. E invece ottenevano il contrario.
Quando sono andato in Nuova Guinea ho visto come le multinazionali stavano, e stanno ancora, disboscando l’intera jungla per vendere il legname pregiato in Occidente e far spazio alle coltivazioni di palma da olio e ai pascoli per le mandrie. Ho provato a stimolare la poca stampa locale esistente, ma con scarsissimi risultati. Anche lì l’informazione è corrotta e pilotata. Allora, assieme ad alcuni giovani del villaggio, ho organizzato dei veri e propri atti di sabotaggio; un paio di volte abbiamo manomesso gli impianti delle segherie, rallentando la produzione di qualche giorno. Ma anche in quell’occasione, l’unico vero risultato è stato farmi cacciare dal Paese con Foglio di Via Obbligatorio, in quanto persona pericolosa.
Il colpo finale l’ebbi quando mi presentai in Italia, meglio, in Vaticano di ritorno da Papua. Dopo tutti questi anni passati tra i poveri, tra le miserie, gli stenti, la fame, le malattie in realtà facilmente curabili, dopo aver visto centinaia di bambini morti di stenti, con le madri talmente magre da non aver latte per nutrirli, dopo tutti questi anni entrare nelle sale del Vaticano è stata un’esperienza che non dimenticherò mai. Sarei dovuto andare a parlare con uno dei funzionari che smistano i missionari in tutto il mondo per vedere dove altro avrebbero potuto mandarmi, in modo che non potessi fare altri e maggiori danni, ma non ce l’ho fatta. A metà del corridoio, in mezzo a tanta magnificenza, sono stato preso da un conato di vomito, giuro, non sto esagerando, e sono uscito di corsa. Lì presi la mia decisione di smonacarmi.»
Ti capisco, ho conosciuto un altro prete con una storia simile alla tua. Anche lui si è spretato, ma è ancora in attesa della dispensa. «Sì, i tempi a volte sono molto lunghi: la concessione del rescritto di dispensa avviene dopo un lungo procedimento, che prevede due fasi: la prima a livello di diocesi o di istituto religioso, la seconda a livello della Congregazione per il clero.» Scusa la mia ignoranza, ma voi Francescani cosa c’entrate con la Chiesa? «La Regola bollata XII fa sì che noi frati siamo sempre sudditi e soggetti ai piedi della santa Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà e l’umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso».
Ad ogni modo, in effetti è un po’ come dici tu, come Francescano ho sempre avuto un atteggiamento piuttosto critico, nei confronti della Chiesa e di come intende il messaggio cristiano. Per questo non mi sono fatto prete. Ci sono state grandi dispute tra il nostro ordine e la Chiesa Cattolica attorno al 1300 relative alla povertà di Cristo, che in realtà riguardava non tanto specificatamente della frugalità di Gesù, quanto dell’opportunità che la stessa Chiesa potesse disporre di ingenti patrimoni. Immagino che anche tu, nonostante la tua leggendaria ignoranza, abbia letto Il nome della rosa dove Eco riassume brillantemente la disputa nella frase La questione non è se Gesù Cristo fosse povero o no, ma se debba esserlo la Chiesa! Per cui, forse, non mi sarei dovuto stupire più di tanto di quello che ho visto nei campi profughi di mezzo mondo.
Ma non vorrei che pensassi né che fu una decisione facile, né tantomeno che le motivazioni di cui ti ho accennato fossero le uniche. Non fu affatto così. La mia riflessione implicava dei pensieri, diciamo delle sollecitazioni, che mi arrivavano direttamente dal mio spirito, se vuoi dalla mia anima e che non collimavano molto non solo con i precetti della Chiesa, ma nemmeno tanto con la visione di Cristo del mio Ordine.
Prima di prendere questa decisione mi recai da un mio caro amico, compagno di seminario che era diventato Guardiano della comunità dei Penitenzieri Ordinari della Basilica di San Pietro, in Vaticano, visto che ero a Roma. Mi confidai con lui, mi ascoltò con molta attenzione ed interesse. Andai a parlare con lui più volte e devo dire che, ora che riesco a vedere quei giorni con un certo distacco, forse ho sbagliato a condividere con un mio fratello questi miei pensieri perché, come mi disse in alcune lettere che mi mandò successivamente, ho fatto vacillare le sue stesse certezze e questo mi turba molto. Un conto è che tu metta in dubbio i tuoi dogmi, un conto è mettere in discussione quelli degli altri: con che diritto scuotiamo l’albero?»
Ovviamente non posso mettermi nei tuoi panni, anche se ritengo il saio un indumento molto bello, nella sua semplicità, come il dhoti. Però credo che ognuno di noi, in realtà, si faccia influenzare da ciò che sente a lui più vicino. Voglio dire, non è che perché tu sei un monaco, allora anch’io mio faccio monaco così, per simpatia. Sono scelte di vita fondamentali che non si possono prendere “per amicizia”. Tantomeno credo che il tuo amico abbia avuto delle indecisioni sul suo percorso solo perché ti sei confidato con lui. Probabilmente già c’era qualcosa in lui che traballava, non credi?
«Mi piace pensare che sia così. In questo modo mi sento meno in colpa. Anche se, a dire il vero, lui è ancora un Francescano, forse un po’ più dubbioso di prima, ma è ancora lì.» Scusami Tommaso, ma a questo punto c’è una domanda che ti devo fare: quale rivelazione ti si è proposta per farti fare una scelta così importante e sconvolgente? Rimase pensieroso per un po’, non so se stesse cercando le parole adatte o se stesse valutando se confidarsi con me o meno. «Dovendo riassumere all’osso potrei dire che Gesù non si è fatto uccidere per redimere i nostri peccati, ma si è ucciso per redimere i suoi peccati.»
Gli Hippies non usano carta igienica. Sii lavano la parte anatomica, così come ogni parte anatomica vada lavata. Senza uso di detergenti.
E spesso nemmeno usano il” saio”, avendo già (francescanamente?) la pelle nuda al sole come abito.
Grazie della lettura Danilo, mentre i passerotti cantano, senza pensare ai vestiti, poiché Natura provvede ad essi il piumaggio.