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Perché l’ordinamento giuridico stenta a difendere i beni comuni?

Questa domanda la pone Ugo Mattei introducendo il Forum. Alcuni progetti di leggi sono in Parlamento, grazie alle firme che sono state raccolte, ma c’è un tentennamento generalizzato e i beni comuni non riescono a trovare una definizione normativa. Nonostante questo, le iniziative sono ancora vive. È stato appena incardinato il disegno di legge proposto dall’onorevole D’Ippolito alla Camera dei Deputati, nelle due congiunte commissioni: Giustizia e Ambiente. Tale proposta riprende Verbatim il testo della commissione Rodotà, sulla classificazione e regime giuridico dei beni, aggiungendo degli articoli sul bene comune ambiente, per modificare il Codice Civile.  Il 16/6/2021 sono partite le discussioni parlamentari che permetteranno di capire come si possa arrivare a meta e in quale forma. 

Definire giuridicamente i beni comuni è condizione necessaria ma insufficiente alla loro tutela

Ma anche se si riesce ad avere i beni comuni definiti nel Codice Civile, il percorso non è spianato. Rimangono i problemi di giurisdizione, di tutela, di difesa e di rendere giustiziabile il passaggio dal pubblico al privato. Le privatizzazioni sono rampanti e sono state la ragione principale del nostro lavoro all’inizio del millennio e ancora non abbiamo dei principi che governano le privatizzazioni. Sono largamente dei processi politici lasciati all’arbitrio delle maggioranze del momento. Dal punto di vista giuridico, questo è il deficit istituzionale più significativo in termini di beni comuni. Manca la possibilità di configurare le privatizzazioni come una questione che si discute giuridicamente: esse non possono essere viste come scelte politiche, devono essere sottoposte a dei principi. Questo, oggi, non è possibile e non soltanto in Italia, ed è una questione fondamentale. Un’altra è quella legata al lungo periodo, al come introdurre l’idea delle generazioni future con l’effetto di collocare dei beni fuori dal mercato per governarli nel loro interesse. Tale difficoltà impedisce d’entrare nel vivo dell’ordinamento giuridico, nonostante dei piccoli successi, come i Patti di collaborazione urbana. Il punto è che non si riesce a costruire una visione di lungo termine nel campo giuridico. Eppure, gli appigli normativi ci sono, il principio di precauzione prevede che si valutino gli impatti nel lungo periodo delle scelte che vengono fatte. Questo principio è largamente ignorato. Generazioni Future ha recentemente presentato una richiesta, fondata su questo principio, relativo alla proposta di sperimentazione vaccinale su ragazzi e bambini.  Non si può prendere tale decisione sottogamba. Eventi come questo vanno pressi sul serio, soprattutto perché non capendo le conseguenze nel breve periodo, esse sono rinviate a tempi remoti. Usando gli armamenti a disposizioni, fondati su una visione di crescita economica infinita, d’accumulo di capitale, i giuristi provano comunque a trovare degli spiragli nei testi giuridici per costruire una sorte de barriera all’improvvisazione del processo politico. Parlare di deficit istituzionali significa riferirsi a ciò che manca e sarebbe bello che esistesse affinché l’ordinamento giuridico potesse farsi carico dei beni comuni e delle generazioni future. 

Il deficit istituzionale per la difesa dei beni comuni è un deficit democratico

Gilda Farrell deficit istituzionale per la difesa dei beni comuni, equivale a parlare di deficit democratico, di democrazie incapaci di evolvere rispetto alla responsabilità reciproca. 

Il diritto internazionale di fronte alla tutela dei beni comuni

Pasquale De Sena si chiede quand’è che la questione della tutela di beni comuni – intesi come beni di cui sia predicabile la contitolarità in capo a una molteplicità di soggetti – si è cominciata a porre in Diritto internazionale?  In molti sanno che, per esempio, il mare internazionale non è – e non è stato – tradizionalmente considerato un bene comune, nel senso appena espresso, e che lo spazio atmosferico è considerato come proiezione delle sovranità sottostanti. D’altra parte, lo spazio extra-atmosferico non è assoggettato alla sovranità di alcuno Stato, come pure il mare internazionale che va oltre le 12 miglia.  Nonostante la definizione degli astronauti come inviati dell’umanità (art. V del Trattato sullo spazio extra-atmosferico del ‘67), nessuno Stato ha mai provveduto ad avere il consenso di altri Stati per organizzare missioni spaziali, e nessuna protesta è seguita a ciò. Gli Stati Uniti in particolare, e poi l’Unione Sovietica, all’epoca hanno svolto l’attività di prospezione dell’atmosfera in modo indipendente. Vale, insomma, il principio del rispetto della pari libertà altrui, che opera anche per lo sfruttamento di risorse dello spazio a fini radio o di telecomunicazioni (per esempio, l’orbita geostazionaria che consente agli operatori di telecomunicazioni satellitari di essere in linea con l’asse di rotazione della terra). 

Infatti, la questione dei beni comuni si è posto in relazione a due regimi specifici:

  • il Diritto internazionale del mare – o meglio delle risorse marine – così come manifestato nella Convenzione di Montego Bay del 1982,
  • il Diritto internazionale dell’ambiente: quel “corpus” di norme, ricavabili tanto da atti internazionali in materia specificamente ambientale, quanto da altre tipologie di atti, aventi, però, analogamente, lo scopo di proteggere l’ambiente. 

I due regimi sono in origine coevi, situandosi l’inizio del loro venire in essere, fra la metà degli anni ’70 e l’inizio degli anni ‘80 (per esempio, la Convenzione di Vienna sulla protezione della fascia d’ozono del 1985 e il Protocollo di Montreal del 1987). Il momento era importante, perché il movimento dei paesi detti in via di sviluppo, nato della decolonizzazione, era ancora molto attivo, essendosi completamente sfarinato inseguito. 

Modelli di gestione normativa dei beni comuni ricavabili da trattati internazionali

Quali sono questi modelli?  Innanzitutto, va chiarito che le norme pertinenti della Convenzione di Montego Bay sono essenzialmente quelle che regolano lo sfruttamento delle risorse minerarie degli oceani, le quali vengono considerate per l’appunto “patrimonio comune dell’umanità” – espressione che ha avuto larga diffusione ma scarsa rispondenza politica. Per garantire che il loro sfruttamento avvenga nell’interesse collettivo, la Convenzione prevede la costituzione di un’organizzazione internazionale, l’Autorità dei fondi marini – un raggruppamento di Stati, con competenza essenzialmente normativa, per regolare il loro sfruttamento – mentre gli aspetti esecutivi sono affidati a un suo organo (la cosiddetta Impresa). 

Sempre restando nell’ambito della Convenzione di Montego Bay, va sottolineato che vi è un altro insieme di norme rilevanti, che riguardano i poteri/doveri degli Stati in tema di inquinamento marino e che sono importanti perché delineano un altro modello di gestione dei beni comuni. Si tratta dell’art. 190, il quale stabilisce un obbligo generale degli Stati, di proteggere l’ambiente marino in alto mare, e l’art. 194, il quale individua nello Stato del porto il soggetto che può/deve adottare misure al riguardo. Non si costituisce – come nel caso delle risorse minerarie – un’organizzazione internazionale, ma si attribuiscono agli Stati – in particolare allo Stato del porto dal quale solca una nave che può generare problemi ambientali – obblighi erga omnes, cui corrisponde, perlomeno in principio, la legittimazione di tutti gli altri Stati, contitolari dell’interesse alla protezione del bene comune (ambiente marino), a pretenderne l’adempimento. 

Ecco, quindi, due modelli di protezione dei beni comuni: l’organizzazione o convenzione internazionale, che è terza rispetto agli Stati e la configurazione degli obblighi erga omnes. Questi ultimi, ricavabili dalla Convenzione di Montego Bay, a differenza della norma, titolari a pretendere l’adempimento, sono gli omens, cioè tutti gli altri Stati firmatari della Convenzione. Sia nell’uno che nell’altro caso la prospettiva di protezione dei beni comuni è inscrivibile nella relazione interstatale: la tutela dei beni comuni risorse minerali e ambiente, è affidata sia a organizzazioni internazionali sia agli Stati.

Il modello erga omnes ricorre pure nei grandi trattati multilaterali successivi, in primis, la Convenzione di Vienna dell’85 sulla fascia d’ozono e l’annesso Protocollo del 1987: gli obblighi generali di riduzione di emissioni nocive, derivanti da entrambe queste convenzioni (es.: art. 2 della Convenzione dell’85) sono strutturati come si è appena detto,  come pure in una serie di trattati successivi, fra i quali la Convenzione di New York sui cambiamenti climatici del 1992, il Protocollo di Kyoto del 1997, nonché la stessa Convenzione di Rio del 1992, sulla conservazione della diversità biologica e poi, per ultimo, il troppo enfatizzato Accordo di Parigi del 2015. 

I principi che reggono gli obblighi incombenti agli stati nella tutela dei beni comuni

In seno a tali trattati si fanno strada, peraltro, anche altre tecniche normative di protezione dell’ambiente, inteso come bene comune, concernenti direttamente i contenuti degli obblighi incombenti sugli Stati e non gli strumenti in sé. Si tratta, in estrema sintesi di tre principi: 1) lo sviluppo sostenibile (art 3, par. 1 e 2 della Convenzione di NNUU sul cambiamento climatico, firmata a New York nel 92), secondo il quale le attività produttive degli Stati devono tener conto degli interessi delle generazioni future; 2) quello precauzionale, in base al quale, il rischio di cambiamenti climatici deve essere evitato, in ragione della gravità degli effetti pregiudizievoli di tale rischio, indipendentemente dal raggiungimento di certezze scientifiche al riguardo (ibidem, art. 3, par. 3). Cioè non c’è bisogno che si raggiunga la certezza scientifica che esiste un danno attinente ad un’attività, ma è proprio l’incertezza che determina l’obbligo di non dare luogo a tale attività; 3)  quello delle responsabilità comuni, ma differenziate, in ragione della quale, nel distribuire gli oneri di riduzione delle emissioni nocive per l’ambiente, bisogna tener conto delle differenti esigenze di sviluppo di diversi gruppi di Paesi, fra i quali gli Stati in via di sviluppo (ibidem); principio, quest’ultimo, cui il Protocollo di Kyoto dà concreta applicazione, differenziando gli oneri suddetti secondo una logica di uguaglianza. 

L’utilizzo della logica del mercato nella gestione dei beni comuni

A parte va invece considerato il meccanismo del commercio dei “crediti di emissione”; cioè, della possibilità, da parte dei Paesi più ricchi, di acquistare crediti di emissione, assegnati ai Paesi più poveri (Protocollo di Kyoto), in base al principio delle responsabilità comuni, ma differenziate.

I limiti dei modelli di gestione normativa

In sintesi, siamo dinanzi a perlomeno a due modelli fondamentali di gestione normativa dell’ambiente e della diversità biologica (organizzazione internazionale e obblighi erga omnes), intesi come beni comuni; ad essi si affiancano tre principi materiali, analogamente intesi a tutelare l’ambiente come bene comune (sviluppo sostenibile; principio precauzionale e responsabilità comuni, ma differenziate); ed un meccanismo – il commercio dei crediti di emissione – in cui si manifesta, chiaramente, un’applicazione della logica del mercato (ancorché regolato) alla gestione di un bene comune.

Quali sono i limiti di questi modelli di gestione normativa del bene comune-ambiente? A parte il limite tradizionale e, in generale, l’assenza di una funzione centralizzata di accertamento delle violazioni delle norme e di esecuzione coattiva delle medesime, perlomeno quattro sono i limiti di fondo dei modelli di gestione sopra indicati:

  • gli obblighi in materia sono formulati in termini molto generici;
  • con specifico riferimento allo sfruttamento delle risorse minerarie dell’alto mare, l’Autorità internazionale dei fondi marini ha avuto, sinora, un funzionamento molto limitato;
  • ritornando al piano generale, anche ai principi materiali rilevanti – in particolare, quelli dello sviluppo sostenibile e precauzionale, dov’è specificamente menzionato l’interesse delle generazioni future – non hanno fatto seguito norme di dettaglio, in grado di renderli davvero efficaci, soprattutto sul piano universale (parzialmente differente è il caso dell’UE, come dimostrato del caso 5G);
  • con specifico riferimento alla questione, cruciale, del cambiamento climatico, va sottolineato che:1) la logica insita nel meccanismo del commercio dei “crediti di emissione” tende a mantenere intatta la disuguaglianza fra paesi in sviluppo e paesi ricchi;2) laddove, a tacer d’altro, è proprio il perpetuarsi dell’asimmetria in questione che costituisce il maggior pericolo in materia: basti pensare che è proprio l’enorme divario di potere economico e politico, ad aver consentito gli Stati Uniti di fuoruscire dagli accordi di Parigi del 2015.

È inutile dire che tutti i limiti appena posti in evidenza, e le loro conseguenze, non costituiscono “difetti tecnici” dei meccanismi giuridici di gestione del bene comune-ambiente, ma conseguenze di precise scelte di politica economica, o di politica “tout court”. 

Alternative giuridicamente rilevanti alla gestione normativa dei beni comuni 

L’ultima questione è se vi siano dei modelli, giuridicamente rilevanti, alternativi rispetto alla gestione normativa di beni comuni, appena esemplificata in materia di ambiente. A questa domanda si dà in genere una risposta positiva, citando le previsioni normative internazionali concernenti l’ambiente come oggetto di un diritto, individuale o collettivo. La prospettiva si sposta dagli Stati ai singoli e si trova in particolare:

  • nel principio n. 1 della dichiarazione – non vincolante di NNUU – di Stoccolma del ’72, dove si parla di diritto di tutti ad un ambiente salubre;
  • nell’art. 24 della Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, in cui si parla di un diritto collettivo ad un ambiente sano attribuito “a tutti i popoli”;
  • nella Convenzione di Aahrus del ‘98, in cui il diritto individuale all’ambiente è declinato in termini procedurali, e cioè di accesso alle informazioni, di partecipazione all’adozione di decisioni, e di accesso alla giustizia in materi ambientale. In Italia, questa convenzione è sostanzialmente priva d’attuazione;
  • nel sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in cui, anche in mancanza di previsioni espresse, la tutela dell’ambiente ha trovato ingresso – in termini di diritto individuale – tramite un’interpretazione estensiva dell’articolo 8, in tema di protezione della vita privata, e pure dell’articolo 2, sul diritto alla vita.

Può dirsi, però, che un simile modello di riconoscimento di diritti individuali e collettivi, ricavabile in termini trasversali da una serie di istrumenti internazionali, costituisca uno strumento realmente in grado di offrire, sul piano giuridico, risposte valide per la gestione dell’ambiente inteso come bene comune? Senza dubbio, un simile modello implica uno slittamento dalla dimensione statale a quella dei soggetti direttamente interessati alla tutela del bene. Comunque, posto che le norme della Convenzione africana – rispondenti peraltro ad una tradizione giuridica del tutto peculiare – hanno sinora trovato scarsa applicazione anche all’interno del contesto di riferimento, cioè del contesto applicativo della Convenzione e posto che i principi della Convenzione di Aahrus hanno, per l’appunto, una portata procedurale, c’è da concentrare l’attenzione, e riflettere bene, sul modello europeo. A questo proposito, qualche osservazione: 

  • tale modello esprime, a ben vedere, una logica (propria pure alla Commissione Rodotà) per la quale la fruizione di un bene comune, quale l’ambiente, è funzionale al godimento di diritti fondamentali (alla vita privata e alla vita, tout court);
  • ciò nonostante, esso non si risolve in un diritto – o in un interesse giuridicamente rilevante – attribuito ad una collettività di soggetti; e cioè, esiste la difficoltà di farlo valere sul piano europeo come un diritto o un interesse di carattere collettivo. Inoltre, gli effetti avversi dell’inquinamento ambientale vengono giudicati rilevanti – sul piano del rispetto della vita privata – solo se essi raggiungono un livello “minimo”; tali effetti, perlomeno per la giurisprudenza sinora sviluppatasi, devono essere attuali (e la loro esistenza va dimostrata da chi li lamenti in giudizio). Il carattere della loro attualità è in contrasto con la protezione delle generazioni future, cioè la circostanza che le conseguenze pregiudizievoli di certe attività possono manifestarsi anche dopo molto tempo – com’è regolarmente avvenuto nel campo del cambiamento climatico – nonché con la logica preventiva del principio di precauzione.   Quindi questo approccio è difficilmente utilizzabile a meno che non ci sia una pressione molto forte dal basso per contrastare sia l’assenza d’innovazione nelle prospettive di tutela, sia nell’attuazione del principio di precauzione. Tutto ciò è ancora più significativo dato che la logica di precauzione trova cittadinanza nel quadro del diritto dell’UE. Tutto questo è alquanto problematico, perché affida il suo compimento ed evoluzione all’iniziativa dal basso, come quella percorsa dalla Cooperativa di mutuo soccorso Stefano Rodotà. 

Il legame tra Convenzione Europea di Diritti dell’uomo (Convenzione) e beni comuni

Rocco Albanese, ringrazia il professore De Sena per aver messo a fuoco una serie di considerazioni rilevanti, per poi presentare il legame tra Convenzione e riconoscimento o mancato riconoscimento dei beni comuni, dentro questo sistema giuridico convenzionale. La Convenzione, siglata a Roma il 4/11/1950, è uno strumento di diritto internazionale recepita in Italia con la legge 848 del 1955 e oggi rilevante ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, che conferisce a questo strumento un rango sub-costituzionale. Le norme o diritti riconosciuti in questa Convenzione sono considerate norme interposte, aventi un valore superiore a quello delle leggi statali, ma inferiore, nella gerarchia giuridica, alle fonti costituzionali. Questo serve a inquadrare la Convenzione come testo giuridico. Essa interessa non solo nella sua versione originale del 1950, ma nella sua evoluzione nel tempo, con gli addizionali, i protocolli, che ne fanno parte integrante.  Il primo protocollo, che ci interessa da vicino, è quello di Parigi del 20/3/1952, cui art. 1 riconosce il diritto alla protezione della proprietà. La difficile compatibilità tra beni comuni e Convenzione non è stata quasi mai esplicitata dall’autorità giurisdizionali, cioè la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte Europea), con sede a Strasburgo. Nonostante questa mancanza di riconoscimento, il rapporto tra beni comuni e Convenzione costituisce un laboratorio, soprattutto nell’ambito delle questioni ambientali, dove emerge una chiara relazione tra beni comuni e   diritti fondamentali, come accennato da P. De Sena. 

I diritti individuali interpretati per riconoscere problemi relativi alla protezione ambientale

Dalla protezione ambientale possono derivare una serie di questioni fondanti relative al rapporto tra diritti e beni comuni. Quando si invoca la Convenzione, si pensa a individui, cittadini, associazioni, persone giuridiche come imprese, che portano in sede contenziosa, cioè davanti alla Corte, entità sovrane, gli Stati, in una relazione verticale consistente sostanzialmente a contestare la violazione di uno dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, dalla quale si rende responsabile, il ricorrente, lo Stato leviatano, cioè la persona pubblica o il potere pubblico sovrano. Nonostante questo schema, molto tradizionale e figlio del suo tempo (nato negli anni 40, firmato dopo la Seconda guerra mondiale) negli ultimi anni disposizioni della Convenzione sono state utilizzate per far riconoscere problemi riguardanti la protezione dell’ambiente. Sicuramente l’art.8 sulla protezione della vita privata e familiare è stata quella di maggior successo. Già nel 94, nel caso Lopez-Ostra contro la Spagna, la Corte Europea ha riconosciuto la violazione dell’art. 8 quando impianti produttivi-concerie di pelli- a Lorca emettevano dei gas inquinanti che danneggiavano la vita privata del soggetto ricorrente. L’articolo è stato applicato pure nel caso Cordella e altri contro l’Italia, nel 2019, per l’assenza di protezione dei residenti dalle emissioni nocive dalla fabbrica Ilva (o Arcelor-Mittal) a Taranto. Comunque, nel caso Kirtatos contro la Grecia nel 2003, la Corte ha affermato, (paragrafo 52 della sentenza) che né l’art.8 né alcun altro della Convenzione sono stati concepiti per fornire protezione all’ambiente in sé e per sé, invocando che altre legislazioni, sia internazionali che nazionali, sono più pertinenti, entrando così in una sorta di dialogo dialettico con altri provvedimenti giuridici. 

Il diritto alla protezione della proprietà alla luce di norme ambientali e paesaggistiche

L’art. 1 del primo protocollo aggiuntivo, protezione della proprietà, diventato dannatamente famoso, ha vissuto un’interpretazione molto estensiva dalla Corte ed è stato applicato anche in un’ottica ambientale. Una serie di pronunce hanno riconosciuto che una ingerenza sulla proprietà privata giustificata da questioni di protezione ambientale è proporzionata e legittima, quindi non sproporzionata e non costituisce una violazione del primo protocollo. In casi che hanno visto come protagonista la Francia (2010 e2017), la demolizione di immobili privati realizzati in modi non compatibili con norme di tutela paesaggistica e ambientale (demolizione non compensata da un indennizzo a favore del privato che la subisce), è stata considerata dalla Corte come ingerenza proporzionata e legittima sulla proprietà privata. L’art. 1 ci espone ad una dialettica vivace, nella dimensione giuridica comune, tra protezione di situazioni individuali, da un lato, e rilevanza collettiva dell’ambiente e della dignità, dall’altro. Naturalmente questo articolo non è interpretato solo in senso progressista, anzi. Il più delle volte secondo la prospettiva proto-liberale, legata a visioni antiquate e censurabile del soggetto individuale-proprietario. 

Considerazioni critiche sul rapporto tra beni comuni e interpretazione della Convenzione

Quali profili giuridici generali vale la pena segnalare nella dialettica di riconoscimento dei beni comuni, da un lato, e testo e interpretazione della Convenzione, da un altro? In primis, il fatto che la Convenzione sia spuntata come strumento di tutela riguardante le relazioni verticali tra poteri pubblici e soggetti privati, mentre i beni comuni possono essere messi a repentaglio o danneggiati tanto dai poteri privati come da quelli pubblici. Questo è un elemento di semplificazione istituzionale perché, per esempio, diventa complicato o impossibile portare davanti alla Corte una corporation internazionale, responsabile di attentati alla qualità dell’ambiente, non meno di una autorità sovrana statale.  Questa semplificazione giuridica, il leviatano da un lato e l’individuo dall’altro, è la prima criticità. La seconda è la concezione di individuo che la Corte propone e riproduce nella giurisprudenza. La mia impressione è che la Corte cada spesso nell’errore di riprodurre una forma esasperata di individualismo e di soggettivismo nelle proprie interpretazioni. Ciò significa che se l’autorità giudicante, davanti ad un problema giuridico, prende esclusivamente la posizione individualistica per iniziare le proprie riflessioni logiche, considerando il soggetto e la sua libertà come il presupposto di ogni ragionamento interpretativo, non riuscirà quasi mai a creare uno spazio istituzionale per la difesa dei beni comuni. Perché i beni comuni non sono una relazione gerarchica tra soggetto e oggetto; nemmeno una relazione deterministica lineare in cui viene prima il soggetto e l’oggetto è in qualche modo una proiezione passiva, inerte di quella che è la volontà soggettiva o individuale. Al contrario, i beni comuni nascono nella e dalla relazione tra individui, comunità, da un lato, e utilità generata dai beni, dall’altro. I beni comuni in natura non esistono, esistono nella misura in cui certe relazioni giuridiche consentono di far sprigionare alcune utilità che permettono di soddisfare (come diceva la Commissione Rodotà) i diritti fondamentali delle persone e delle comunità, cioè di garantire il loro pieno sviluppo. Questo tipo di relazione, più dialettica, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, la conosce. C’è un filone giurisprudenziale, quello del diritto all’abitazione, in particolare nei casi delle comunità Rom. Quando sono state minacciate di sgombero, da parte di autorità pubbliche, l’art. 8 della Convenzione è stato interpretato in modo relazionale. Cosa è una casa, un’abitazione, anche per la Corte Europea? È la sede delle relazioni, è qualcosa di dinamico, di vivo, e questo ci interessa molto. Perché? Perché queste sono frontiere problematiche che vale la pena d’indagare. Una protezione effettiva dei beni comuni nel sistema convenzionale può piuttosto sfruttare una concessione relazionale tra soggetti e oggetti anziché una individualistica del soggetto.  Questo può valere tanto per l’art.8, e quindi per il rispetto della vita privata e familiare (articolo invocato dai sei giovani portoghesi che hanno portato a giudizio 33 stati, col sostegno dell’organizzazione Global Legal Action Network-GLAN), ma può valere pure per l’art. 1 del primo protocollo. Quindi, chiudo con questa suggestione, i beni comuni potrebbero essere considerati come forme di “possessioni” ai sensi di quel art. 1 che finora è stato sempre interpretato come esposizione a tutela di forme più individualistiche e reazionarie di proprietà. Tale articolo potrebbe essere letto in una maniera totalmente nuova, attenente ad una logica dinamica e relazionale. Alcuni esempi di questa possibilità esistono. Si tratta di un percorso che si può sviluppare soltanto facendo ciò che diceva P. De Sena: immaginando dei contenziosi strategici. Questo tipo di ragionamenti affianca e oltrepassa un quadro istituzionale che è stato storicamente caratterizzato, ma mai esaurito e monopolizzato, da pilastri come il suffragio universale, il principio rappresentativo e quello di maggioranza, che sono i tre cardini delle democrazie moderne, del costituzionalismo liberal-democratico. Ora non è che dobbiamo liberarci di questo, ci mancherebbe altro. Ma il diritto dei beni comuni ci propone di costruire istituzioni che siano complementari e concorrenti di quelle che ereditiamo della tradizione moderna. Per far cosa? Per tutelare al meglio le istanze trans-soggettive e sopra-individuali delle generazioni presenti e di quelle future. 

In pratica, la Convenzione, strumento per allargare la coscienza sulla protezione dell’ambiente

Antonella Mascia già avvocato a Verona ha sperimentato il disagio e la difficoltà di fare cause a difesa dell’ambiente e di intere aree pregiate, sottoposte, per esempio, a edificazione selvaggia. Avendo avuto l’occasione di lavorare alla Corte europea dei diritti dell’uomo come giurista ha riflettuto su come usare, come avvocato, questo sistema di controllo pensato per l’applicazione in concreto della Convenzione, che garantisce i diritti fondamentali riconoscendo tuttavia ai Giudici di Strasburgo una competenza limitata. La Corte europea è infatti concepita come uno strumento sussidiario e interviene solo dopo che lo Stato aderente alla Convenzione si è espresso a livello interno sulle violazioni dei diritti umani che poi si lamenteranno a livello internazionale. Dal 2010 presenta esclusivamente ricorsi alla Corte europea, pensando a questo strumento in modo strategico-rivoluzionario: attraverso le singole disposizioni della Convenzione è possibile tutelare l’ambiente e attraverso il patrocinio di un singolo ricorso, l’accesso alla Corte europea è infatti individuale, le doglianze del singolo ricorrente hanno in realtà una ricaduta generale. Attraverso il caso singolo si possono evidenziare i problemi strutturali che esistono nell’ordinamento interno per permettere di acquisire consapevolezza e una presa di coscienza, perché è proprio questa la funzione della Corte europea, ovvero quella di accertare e di far luce su violazioni dei diritti fondamentali che permettano allo Stato contraente di porvi rimedio. 

Istruire causa per guadagnare in dignità, coscienza e responsabilità

Le cause ambientali contro l’Italia, citate da R. Albanese, come Cordella e altri contro l’Italia, e soprattutto una precedente nel 1998, Guerra e altri contro l’Italia (danni per produzione di fertilizzanti da parte dell’Enichem Agricoltura Spa), hanno permesso una rilettura dell’art.8 che protegge la vita privata, familiare, il domicilio e la corrispondenza. Con tale disposizione la Corte europea ha elaborato una giurisprudenza che ha portato ad estendere la tutela all’ambiente e dunque il diritto a vivere in un ambiente sano. Attualmente, la causa Di Caprio e altri contro l’Italia, riguardante il grave inquinamento esistente nel napoletano e tristemente conosciuto come la “Terra dei Fuochi” a causa dei roghi che sono appiccati nelle discariche illegali esistenti in quel territorio, mostra in modo evidente l’assenza di una tutela effettiva dell’ambiente, l’insufficienza o la superficialità dei controlli e, ancora, una normativa   deficitaria che non soddisfa gli obblighi positivi vincolanti nascenti dalla Convenzione. Le vicende dei singoli che hanno subito una violazione dei loro diritti fondamentali confluendo in una procedura davanti alla Corte europea permette loro di prendere coscienza dei loro diritti, di quanto essi siano stati calpestati e tutto ciò permette a loro e alla comunità in cui vivono di maturare. Attraverso il riconoscimento delle violazioni, i ricorrenti e la loro comunità, ma anche tutti noi, recuperiamo la nostra dignità e allora il ricorso del singolo permette una tutela mediata dell’ambiente, dell’aria, dell’acqua, del bene comune. Il limite di questo strumento è che questo processo può essere attivato solo dal singolo attraverso l’esperienza da questi vissuta. E tuttavia, lo si ribadisce, l’accesso al giudice internazionale è una grande rivoluzione perché mai prima d’ora è stato possibile che il singolo individuo potesse rivolgersi direttamente a una giurisdizione internazionale. Pur con i limiti e le criticità che questo strumento ha, è importante attivare questa procedura internazionale di tutela perché  i principi sanciti via via dalla Corte europea possono contribuire e contribuiscono all’evoluzione e alla responsabilizzazione degli Stati. 

Gli obblighi positivi dello Stato 

La giurisprudenza della Corte, pure con i suoi limiti, ribadisce in modo sempre più stringente l’esistenza di obblighi positivi assunti dagli Stati aderenti alla Convenzione. Tali obblighi non nascono solo rispetto all’art. 8 della Convenzione, dove lo Stato ha la facoltà di bilanciare gli interessi in gioco e dove il Giudice internazionale deve valutare la proporzionalità dell’ingerenza dello Stato sui diritti del singolo. Per la tutela dell’ambiente e dei beni a valenza comune è possibile chiamare in causa anche l’art. 2 della Convenzione, che garantisce il diritto alla vita. Questa disposizione impone agli Stati il rispetto di obblighi positivi sulla salute pubblica ed entra in gioco quando le persone si ammalano gravemente o muoiono a causa dell’inquinamento del territorio. Sto assistendo diversi ricorrenti nella causa Di Caprio e altri contro l’Italia riguardante l’inquinamento della “Terra dei Fuochi”, iniziata nel 2014. Abbiamo raccolto testimonianze di chi aveva subito lesioni, di mamme che portavano il fardello di bambini morti per patologie legate allo smaltimento illegale di rifiuti, associazioni di persone che si sono costituite per far fronte al problema, e abbiamo portato questa grave realtà all’attenzione della Corte europea. Il caso è stato comunicato nel 2019 al Governo italiano il quale ha dovuto rispondere a domande precise riguardanti il rispetto dei parametri non solo nazionali, ma anche europei, degli standard di tutela del diritto alla vita e della possibilità di vivere in un ambiente salubre. Nelle domande poste al Governo italiano, la Corte europea ha fatto riferimento a una normativa e a una giurisprudenza europea ben precisa e presumo che questo passaggio possa servire a dire che esiste un nesso causale tra il mancato rispetto delle normative e le lesioni alla vita. La causa Di Caprio contro l’Italia ha posto la questione per quei pochi ricorrenti, ma rappresenta migliaia di persone. Siamo in attesa della pronuncia che tarda purtroppo ad arrivare, ma si confida che la pronuncia arrivi presto. Inoltre le cause come questa permettono di evidenziare che nell’ordinamento interno contro queste gravi violazioni non esistono ricorsi effettivi, in violazione dell’articolo 13 della Convenzione. In Italia la persona singola, o anche un’associazione ha come unico rimedio disponibile per opporsi all’inquinamento del proprio territorio la denuncia penale e tuttavia la tutela penale offerta è stata per lungo tempo poco incisiva perché i reati ambientali avevano natura contravvenzionale o termini troppo brevi di prescrizione Inoltre, la risposta penale, anche se permettesse di assicurare i responsabili alla giustizia non garantisce in realtà il vero rimedio che le persone che subiscono danni gravi per l’inquinamento dell’ambiente in cui vivono vorrebbero, ovvero poter ripristinare i luoghi di vita in luoghi salubri e rispettosi della loro vita.  I ricorsi alla Corte europea pongono l’accento su tutte queste problematiche e possono costituire uno strumento per superare i limiti del sistema interno nella tutela dei diritti fondamentali. 

Quando gli Stati sono chiamati in causa delle varie generazioni

Segnalo che oltre a queste cause più “tradizionali”, recentemente sono state presentate due ricorsi a mio parere rivoluzionarie. Una, Duarte Agostinho e altri contro il Portogallo e altri 32 Stati, introdotta il 7 settembre 2020 e immediatamente comunicata, il 30 ottobre 2020. Il ricorso è stato introdotto da giovanissimi cittadini portoghesi che lamentano una violazione degli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti degradanti), 8 (diritto alla vita privata e familiare) e 14 (divieto di discriminazione) in ragione degli effetti nocivi del riscaldamento climatico globale sulla loro vita e salute, in particolare considerando la loro giovane età. C’è inoltre una causa, Verein Klimaseniorinnen Schweiz e altri contro la Svizzera, dove un’associazione a difesa delle persone di terza età ha presentato un ricorso il 26 ottobre 2020 e il caso è stato comunicato il 17 marzo 2021.  Gli articoli e le ragioni invocate sono le stesse che nel caso precedente, dovuto a decessi di persone anziane, soprattutto donne, per l’aumento di temperature. Questa costituisce una nuova frontiera perché si parla del principio di precauzione, della mancanza di rispetto di accordi internazionali firmati dagli stati. Non basta che esistano leggi o obblighi derivati da tali accordi, se non vengono rispettati, bisogna agire. Dato che gli Stati hanno sottoscritto trattati internazionali vincolanti sono ora chiamati a rispondere del mancato rispetto degli obblighi che si sono assunti con la sottoscrizione di tali disposizioni. Segnalo anche che sul principio di precauzione sono state intentate cause a livello nazionale nei confronti di Stati o imprese  in quanto ritenuti responsabili della mancata lotta al cambiamento climatico e queste cause hanno sempre più successo. Questo fronte deve essere coltivato, come parte di una strategia di tutela dei beni comuni. Il sogno è di arrivare alla tutela dei beni comuni in modo autonomo e distinto dalla lesione dei diritti del singolo individuo. 

Dal referendum sull’acqua all’occupazione dei luoghi di cultura

Guido de Togni, richiama l’esperienza della Costituente dei Beni Comuni, un percorso storico al quale ha partecipato attivamente. Pochi giorni fa si celebravano i risultati del referendum sull’acqua, frutto di un movimento di comunità. Risultati contrastati da una legislazione che viene portata avanti a dispetto della decisione del popolo italiano. Subito dopo si verificò l’occupazione del Teatro Valle a Roma (uno striscione ricordava che “come l’aria, come l’acqua anche la cultura è un bene comune”), che fu seguita dall’occupazione di altri spazi culturali, generando un movimento di riflessione ma anche di affermazione fisica e spaziale dei beni comuni. Lo spazio del Teatro Valle si avverò molto importante per portare avanti una riflessione politico-giuridica sulla questione culturale, di conoscenza della storia dei beni comuni, che è fondamentale. Da questo movimento si arrivò progressivamente alla definizione e sperimentazione di un modello proprio per colmare il deficit istituzionale. In questo senso, vale la pena di ricordare lo Statuto della Fondazione del Teatro Valle, che fu elaborato con grande partecipazione cittadina di provenienza eterogenea, sia sociale che politica. Una serie di assemblee successive servì a strutturarlo e un software fu creato all’interno del movimento di occupazione per proporre emendamenti che poi erano discussi in assemblee periodiche. Questo portò a creare un modello di gestione di un teatro pubblico (precedentemente gestito dell’ETI -Ente Teatrale Italiano che venne soppresso dal governo Berlusconi, seguendo la frase: con la cultura non si mangia, dando ovviamente luogo a delle risposte cittadine). 

Nel suo percorso la Fondazione trovò nell’amministrazione pubblica il suo più acerrimo nemico, perché portava avanti un’idea di partecipazione, d’inclusività ma rivendicando l’autonomia dal potere pubblico. Questo permise di capire che la gestione dei beni pubblici si differenzia da quella pubblica nella sua domanda di autonomia. Nel caso del Valle si trattava di un modello apartitico che trovava la sua legittimità nella partecipazione dei cittadini, elaborando criteri attenenti alla cura e alla presa di decisioni. Descritti nello statuto, tali criteri, superavano la discrezionalità politica dei beni che il pubblico rivendica nella gestione pro-tempore. 

La Costituente dei Beni Comuni

Su questa scia nacque la Costituente dei Beni Comuni. Fu un momento di grande emozione, di incontro tra movimenti sociali e giuristi civilisti che avevano fatto parte della Commissione Rodotà, alla quale si tentò di dare una continuità, creando un metodo di lavoro molto preciso. Venne chiamata costituente – anche se il termine fu dibattuto – perché integrava il portato d’attuazione di principi costituzionali (uguaglianza e partecipazione politica), avendo l’ambizione di modificare l’impianto del diritto di proprietà, la cui concezione nel Codice Civile è assolutamente inadatta ad affrontare le questioni del cosiddetto diritto vivente, che evolve con le dinamiche sociali. Di fatti, il Codice Civile non è stato nemmeno colpito dalle modifiche apportate dalla Costituzione del 48, dunque era importante affrontare questo argomento. La Costituente portò a scrivere l’articolato stesso di un Codice dei Beni Comuni, appropriandosi dell’idea di delega (con cui si delega il governo a fare), partendo della definizione della Commissione Rodotà, cioè beni che generano utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali. Comunque, legati alla persona, ma anche alla formazione sociale dove l’individuo sviluppa la propria personalità. Già allora e durante l’esperienza la questione ambientale era urgente, così s’aggiunse la nozione di generazione di utilità ecologica del sistema ambientale. 

Un percorso a due momenti: quello partecipativo diffuso e quello di elaborazione giuridica

Questo percorso ebbi due momenti: 

  1. assemblee diffuse, percorrendo il territorio italiano. L’Aquila, sulla questione del diritto all’abitare, alla città, come luogo di rapporti sociali e il diritto al patrimonio storico. Pisa, dove un palazzo abbandonato era stato reso attivo con attività culturali. Si discusse la questione del perché in caso d’occupazione la prima reazione dei poteri pubblici sia lo sgombero con la forza, quando in realtà la cittadinanza rigenera la funzione sociale di un bene abbandonato e quindi dannoso dal punto di vista ambientale. Nello specifico non c’erano problematiche di ordine pubblico, di scontri con la vicinanza. Venezia, sulla questione ambientale, l’arrivo di grandi navi, il trattamento dato a una città dichiarata patrimonio dell’umanità, sfruttata in tutto il suo potenziale d’accumulazione. Poi, Val di Susa, sulle grandi opere e la brutalità con cui lo stato impone decisioni che distruggono delle comunità territoriali con opere di dubbia utilità. Un’assemblea con i lavoratori dell’Ilva e la visita al quartiere Tamburi per ascoltare quelli che vivevano situazioni drammatiche, per le quali non esistono tuttora strumenti per fronteggiarle.  A Napoli sui modelli istituzionali per appoggiare la gestione dei beni comuni in comunità identificate e, sulla questione degli usi civici, diritto un po’ residuale che viene prima dell’inarrestabile avanzata della proprietà privata, che poteva essere ripresa e riattualizzata.
  2. riunioni di una commissione redigente al Teatro Valle, composta dai giuristi che avevano integrato la Commissione Rodotà, con l’aggiunta di due costituzionalisti, Lucarelli e Azzariti. Si cercava di mettere in bella copia quello che emergeva dei territori e delle buone pratiche, una presa diretta con la società civile, con l’attivismo che allora costellava il Paese. Si iniziò a ideare un Codice dei beni comuni sul modello francese del Codice sull’ambiente. Codice che mandasse in deroga il Codice civile e si occupasse esclusivamente del tema dei beni comuni. Era composto da: a) una parte generale, sulla tassonomia dei beni, inserendo la categoria dei beni comuni e la questione di titolarità. Ci si agganciò all’art.43 della Costituzione, piuttosto dimenticato della tradizione costituzionalista italiana perché quando fu scritto non si pensò ai beni comuni. Effettivamente esso permette il passaggio della gestione dello stato a delle comunità di lavoratori e utenti, concetto questo che innalza il valore dell’interesse generale. Concentrandosi su questo concetto si diede valore all’identità del soggetto collettivo, diversa da altri che la Costituzione descrive e che hanno ruoli nell’intermediazione istituzionale, come partiti e sindacati. Rispetto alla titolarità (art.13 del Codice) dei beni comuni, i titolari potevano essere persone pubbliche, private o comunità, avendo comunque una dimensione collettiva secondo modalità fissate dal Codice. Successivamente si introdussi l’accesso alle utilità comuni, con l’idea del passaggio da un regime proprietario ad un regime di utilizzo d’uso, agganciandosi al concetto di utilità funzionale; b) nel titolo secondo, risorse comuni materiali,  si enunciarono una serie di risorse come l’acqua, l’energia, fauna e flora, territorio; c) al titolo terzo, tra l’utilità comuni generate dalle attività umane si menzionarono beni materiali e immateriali, infrastrutture a rete, cultura, beni culturali, infrastrutture scolastiche, accesso all’istruzione, alla salute e infrastrutture sanitarie, in quanto generatori di funzionalità per soddisfare diritti fondamentali, come il diritto alla salute e alla vita.

Quest’ultimo aspetto è ancora aperto. Il modello democratico liberale ha un problema sistemico, da una trentina d’anni, quando è finita la dialettica almeno tra due modelli diversi. Ne crollò uno e iniziò la cavalcata inarrestabile dell’altro. La democrazia rappresentativa si è sfaldata, corrotta in larga parte, per la mancata funzione dei partiti in quanto canali di partecipazione dei cittadini per elaborare politiche che tutelino gli interessi comuni. Ora, i cittadini ritrovano forza in altre forme di partecipazione, come i referendum o l’occupazione di siti, per creare un rapporto di forza e affermare ciò che si ritiene giusto. Il sostegno all’occupazione del Teatro Valle, che doveva durare tre giorni, fu di sostegno alla giustizia, alla gestione diversa di uno spazio pubblico. Diventò un luogo di spettacoli di grandi artisti, di seminari, di formazione delle maestranze, di laboratori aperti a tutti, pure con visite guidate. Il luogo ritrovò una valenza di funzione sociale e culturale per la cittadinanza. Ora mi occupo anche della cura di terreni agricoli abbandonati, che sono molti. Anche lì si stanno perdendo le maestranze, i mestieri e le culture molto antiche, che vanno piantate col sostegno di sovvenzioni.  

Per finire, Il termine comunità, proprio alla partecipazione diffusa, si deve intendere come un potere, quello di mettersi in comune, tanto quanto la sovranità è il potere del sovrano. La semantica del termine è importante. Attraverso la spinta collettiva si riattiva il potenziale per produrre cambiamenti urgenti, come quelli ambientali. Piuttosto che parlare di un altro modo di possedere, espressione di Paolo Grossi, si dovrebbe parlare d’altro modo di utilizzare i beni e le risorse. Su questo c’è lavoro da fare legislativo e informativo. 

Tecnica giuridica non va confusa con formalismo giuridico

Per Ugo Mattei, essere giuristi significa porsi in una lunga tradizione di pensiero, puntando a delle mediazioni sociali alte, capaci di produrre regole del gioco tendenzialmente generalizzabili. Le Corti dovrebbero concretizzare queste mediazioni a livello alto, in singoli conflitti. Ciò non avviene. La capacità delle Corti di spogliarsi del formalismo giuridico diminuisce. Ossia, diminuisce la responsabilità della riflessione giuridica in senso tecnico, piuttosto che su formalità, per non affrontare temi delicati, lasciandoli in balia della politica. Questo si verifica alla Corte Europea. Essere giuristi tecnicamente avveduti o formalisti è una questione da affrontare. La qualità della riflessione giuridica – rispondendo a Claudio Mazzoccoli (che ricordava le critiche mosse contro la Commissione Rodotà sulla “privatizzazione” dei beni pubblici), ha reso unica tale Commissione.  Grazie alla mediazione di Stefano Rodotà, si era raggiunto un compromesso fra le ragioni delle forme giuridiche e quelle della necessità di trasformare il diritto. Era il massimo punto d’avanzamento nelle condizioni realistiche della cultura giuridica. La Costituente dei beni comuni cercò di mantenere alta la riflessione tecnico-giuridica, provvedendo ad aggiornare materiali dei giuristi che dovevano elaborare le tensioni sociali in possibili regole del gioco. Guido De Togni ha distinto due momenti: la raccolta dati nei territori, partecipata da tutti, e la redazione con degli strumenti propri al lavorio del giurista. Le critiche mosse alla Commissione Rodotà, soprattutto nel 2019 alla raccolta firme per la legge d’iniziativa popolare sulla difesa dei beni comuni, sono di marca politico ideologia, prive di dibattito serio, sbandierando le ragioni dello Stato sovrano, che a partire del lavoro sui beni comuni dimostra non essere più capace d’arginare i processi di massificazione, di inquinamento, di degrado. La posizione nostalgico-statalista, propria di una certa cultura politica, si è accompagnata da ultimo con il disprezzo del livello tecnico della riflessione che integra il fatto che la legge sui beni comuni possa essere prodotta con la partecipazione di chiunque abbia qualcosa da dire. Se i beni comuni diventano questione di parte politica, si distrugge la loro natura contro egemonica e trasformativa.

Strumenti giuridici, decisioni di rilevanza politica e lotte politiche

Rispondendo a Giovanni Tomei, Pasquale De Sena l’idea che la creazione di una struttura internazionale di valutazione, con poteri sanzionatori, lo vede scettico, se fondata su meccanismi interstatali. Non è la soluzione perché le questioni in gioco non sono di carattere tecnico-giuridico ma di altissimo rilievo politico, in cui il giurista può entrare una volta che una base di carattere politico si sia consolidata.  Invece vede fecondo l’utilizzo di tutti gli spazi che il giurista dispone per proporre forme d’azione che riguardino la tutela dei beni comuni, come sottolineato da A. Mascia. Ma ci vedi anche i limiti. Primo, nessuna di queste forme ha una possibilità di successo senza sostegno collettivo, di pressione delle istanze giurisdizionali investite. Secondo, manifesta pessimismo riguardo alla sensibilità delle istanze giurisdizionali rispetto alle questioni poste. Comparando il ruolo della Corte Europea nello sviluppo della tutela di diritti fondamentali in Europa in modo autonomo, rispetto alle regole internazionali, tra gli anni 70-90 e oggi, si vede come l’identificazione dei giudici – oggi meno indipendenti dai governi e meno competenti – i criteri non danno rilievo alla sensibilità delle persone. Poi, la Corte svolge sempre di più un ruolo in conflitti politici, ricorsi interstatali mai azionati prima e che ora si azionano in relazione a conflitti come l’annessione della Crimea o la questione georgiana. Nessuna Corte può decidere su questioni di questa portata politica e diventa un elemento di tensione. Terzo, ci sono delle questioni sub-determinate, quando la cultura dominante nei dipartimenti giuridici e di scienze politiche è in contrasto con la cultura giuridica che aveva portato la Corte in certe direzioni ieri. Si devono, come dice A. Mascia, fare delle cause strategiche. Ma se non supportate da lotte politiche alte, come nel quadro di Generazioni Future, non c’è da aspettare molto. Questo risponde al commento di Luigi De Giacomo sull’utilizzo contro egemonico del diritto che, pur avendo la sua importanza, è una stanzia flebile per attivare la coscienza e pretendere da chi ci rappresenta – in una democrazia parlamentare – che faccia non solo gli interessi del popolo ma l’attuazione dei valori fondamentali della costituzione. 

Sentenze della Corte, criticità e ruolo della società civile

Per Antonella Mascia, le cause davanti alla Corte hanno delle criticità. Seppure vengano accertate delle violazioni dei diritti, non succede niente se non c’è supporto dalle forze civili, da chi s’interessa all’applicazione della sentenza. Queste non sono solo accertamenti, devono essere eseguite. Nel caso Ilva, per esempio, c’è un monitoraggio della sentenza, accertamenti di quel che fa l’Italia, che deve rispondere per le interferenze nell’esecuzione. Questa è sorvegliata dal Comitato dei Ministri: ma la società civile può intervenire, anche se nessuno lo sa. La Direzione della Corte incaricata dalle esecuzioni è attenta a quest’opinione. La società civile può intervenire in fase esecutiva di queste sentenze internazionali, spiegando cosa succede veramente, rendendoli più efficaci. Sono in disaccordo con l’opinione che i giudici non siano autonomi dai governi. Sono nominati sempre nello stesso modo: una terna presentata dai governi con certi criteri e una scelta dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (CoE), istanza che punta a migliorare l’accesso ai diritti umani. I giudici sono accompagnati dalla Cancelleria, formata da giuristi d’alto livello e hanno una giurisprudenza vincolante da rispettare. I tecnicismi o formalismi che permettono di scansare la domanda o la questione principale possono essere evitati formulando correttamente la causa nello stato membro, per “imporre” una certa condotta da parte del giudice internazionale, in seconda battuta. In risposta alle persone che presentavano gravi violazioni nei territori, è bene chiarire la portata delle cause internazionali. Se per un problema (Ilva o Terra dei Fuochi) c’è una causa sola, questa non ha lo stesso impatto che 100 o 200 cause, perché mostra un problema strutturale.  Si tratta di uno strumento spuntato, gentile, ma che va usato. Infine, lo Stato non può presentare ricorsi alla Corte: deve rispondere delle mancanze eccepite nei diritti fondamentali, è l’accusato. 

Non solo criticità nelle sentenze della Corte, ma una ventata agghiacciante di conservatorismo

Pasquale De Sena non discute il fatto che si deve far ricorso alla Corte Europea, ma dice che è una falsità che le sue sentenze abbiano una portata progressiva, osservando per esempio delle questioni in materia di emigrazione, punto dove vengono fuori gli ultimi. Negli anni 70-90 la Corte era un luogo progressista perché c’era modo di esprimersi su tanti punti nei quali venivano fuori gli ultimi. Oggi, sul piano migratorio, c’è un blocco che ha un’origine politica, nei criteri di selezione dei giudici. Le procedure di selezione sono articolate formalmente in linea con i criteri stabiliti dalla Convenzione e del CoE, ma le designazioni sono farlocche. Anche per decisioni rilevanti a livello internazionale, siamo di fronte ad un’agghiacciante ventata di conservatorismo. Decisioni nazionali, comprese le Corte Costituzionali, sono più avanzate della Corte Europea oggi, là dove era l’esatto contrario negli anni passati.  Le decisioni della Corte Europea in materia di decisioni del Consiglio di Sicurezza di NNUU e diritti fondamentali, sia nel quadro della cosiddetta repressione del terrorismo che di gestione di territori soggetti a forze multinazionali sono in un senso di assoluta deferenza al commando internazionale delle NNUU e le sue logiche. Questo non si sarebbe verificato quando la Corte Europea ha dato corpo alle cosiddette nozioni autonome, innovando. Oggi non innova più, né nel campo del diritto internazionale pubblico né nella tutela degli ultimi, i migranti. Naturalmente il caso Ilva è importante, ma il mio messaggio è un altro: affidare a questa prospettiva l’azione di tutela dei beni comuni, non serve molto se disgiunta dalla azione di sostegno di organizzazioni autonome. 

Oltre la logica dei rimedi, la creazione di nuovi strumenti giuridici di cooperazione locale

Nell’ottica rimediale, le situazioni giuridiche nascono e vengono sprigionate dai rimedi, ma pure dalle vicende e controverse. Rispetto alla discussione odierna centrata sull’ambiente come bene comune in una prospettiva macro, l’uso strategico del contenzioso, in un’ottica rimediale politica dei diritti, non riguarda solo la Corte Europea ma pure quelle nazionali. In diverse giurisdizioni ci sono state delle vittorie, come nel caso Urgenda del 2019 contro l’Olanda e da poco quella dell’Olanda contro una multinazionale, aprendo dal punto di vista macro al rimedio della responsabilità civile dello Stato, per insufficiente perseguimento degli obblighi internazionali, come l’Accordo di Parigi. Tale rimedio impone una tutela specifica agli Stati e alle Corporation private: non interessa come si arrivi all’obbiettivo, ma deve arrivarci entro i termini stabiliti. Questo ha a che fare con la qualificazione e differenziazione degli interessi giuridici che vengono portati dentro un contenzioso e riconosciuti al suo esito. E un tema gigantesco dal punto di vista giuridico e istituzionale, perché dimostra che i contenziosi sull’ambiente come bene comune in senso macro non sono quelli del soggetto individuale ma di interessi diffusi, come si diceva 40 anni fa, interesse di tutti e di ciascuno. Non a caso l’obbiezione che si faceva era che gli interessi diffusi erano privi di struttura giuridica, perché interessi a despota. Oggi, grazie ai contenziosi strategici si portano le corti a riconoscere che esistono interessi giuridici meritevoli di protezione anche se non c’è un despota. E si riconoscono categorie giuridiche oltre a quella nominativa, dell’individuo. Ma il diritto funziona anche oltre l’approccio rimediale, con strategie di politiche del diritto e istituzionali di tipo sperimentale fisiologiche, senza intervento delle Corti. Spostandosi dalla tutela internazionale dell’ambiente, a delle questioni micro-locali, il diritto dei beni comuni urbani ci mostra un altro percorso istituzionale. Dal 2013-14 ci sono esperienze significative. Abbiamo diversi statuti locali, dei comuni e delle Regioni che riconoscono i beni comuni. Oltre 220 amministrazioni locali hanno adottato il regolamento per la gestione condivisa e la cura dei beni comuni. Tali sperimentazioni permettono, accanto ai rimedi, l’affermazione di istituzioni di diritto per i beni comuni. Furono iniziate 10 anni fa col riscatto del concetto di sussidiarietà orizzontale (art118,4 della Costituzione) dall’interpretazioni come apertura del welfare pubblico alle logiche di mercato, apparentemente privato sociale, ma in realtà per profit. Riscattandolo in senso cooperativo e solidale, si sono innescati percorsi di ricerca e sperimentazione, come a Torino dove si è posto a disposizione dell’amministrazione e dei cittadini, pure stranieri, un set di strumenti di cooperazione giuridiche. Attraverso la cooperazione tecnica, questo consente di esprimere una serie di relazioni giuridiche fondate e riconosciute nell’ottica dei beni comuni e dell’autogestione, come il Patto di Collaborazione. Per beni di maggiore complessità che richiedono investimenti nel lungo periodo, si è immaginato le Fondazioni per i Beni Comuni, usando una figura tipica del diritto privato in un’ottica partecipativa e innovativa per trasformarla in infrastruttura per i beni comuni urbani. Quest’ottica in apparenza micro, ci insegna a capire il conflitto tra beni comuni e accumulazione, come David Harvey l’ha spiegato nel diritto alla città. 

L’urgenza di creare modelli autonomi, aperti e trasparenti

Per Guido de Togni, le critiche di stampo neoliberale diffuse sui beni comuni come privatizzazione dei beni pubblici erano già presenti durante la Costituente dei Beni Comuni in riferimento all’art. 43 e al concetto di comunità di lavoratori o utenti. Beni comuni gestiti con modelli partecipativi, a protezione dei diritti del tutore, è un concetto difficile da affrontare.  Il modello della Fondazione del Teatro Valle fu riconosciuto da Stefano Rodotà e altri giuristi come di alto livello tecnico-giuridico, ma, come già detto, trovò il più grande nemico nel Ministero dei Beni Culturali e nell’amministrazione pubblica romana. E questo per un fatto preciso: i beni comuni affondano a piene mani, nel ricercare modelli di governo autonomo, nella tradizione della democrazia consiliare, che è diversa dalla democrazia fondata sul sistema partitico. I beni comuni si ritrovano a confrontare situazioni in cui l’amministrazione pubblica elabora strumenti molto avanzati, come le delibere di Napoli, che sono messi in difficoltà dalla discrezionalità del potere pubblico e politico che amministra. Per uscire da questo conflitto bisogna concentrarsi sull’elaborazione di modelli autonomi dal pubblico-amministrativo. Si potrebbe concretizzare come cessione da parte dello Stato a formazioni sociali che si fanno carico di compiti che lo stato non è in grado di svolgere. Il problema si pone perché gli Stati all’interno del sistema europeo hanno perso la sovranità sulle politiche di bilancio e sulla leva dell’azione politica del sistema rappresentativo. Gli Stati devono così prima affrontare gli obblighi dei debiti e, in secondo luogo, se ne sono capaci, investire nella tutela dei diritti fondamentali. Problema costituzionalistico rimasto sottotraccia, avendo carattere sistemico. I beni comuni si affermano in logiche di mutuo impegno, uscendo dal sistema di competizione individuale e partitica, come nel caso della Fondazione Valle. Questo modello era fondato sulla partecipazione aperta, l’autonomia dal potere pubblico, trasparenza nella gestione per rispondere alla comunità politica che fa riferimento al bene, consenso e inclusività nell’accesso. Il suo funzionamento fu dettagliato nel regolamento. Essa ha avuto riconoscimenti internazionali molto più che in Italia, dove ci sono problematiche specifiche nella gestione e controllo degli spazi culturali. Se ne possono ideare altri tenendo presente le caratteristiche appena indicate e trovare modalità di collegamento quando il bene è di proprietà pubblica, rifiutando il controllo sulla gestione, la nomina di soggetti che prendono decisioni vincolanti, perché contrastano con la gestione politico-istituzionale che i beni comuni interpretano. Concludo dicendo che le esperienze micro devono tradursi in modelli tecnicamente replicabili da chi vuole impegnarsi, come fu il caso dei 5300 soci fondatori del Teatro Valle che, con quote diverse, manifestarono il proprio interesse. Il modello oggi è fermo e non ha possibilità di sperimentazione effettiva.