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L’assenza di istituzioni transnazionali pertinenti è fonte di crisi politica di fronte alle dimensioni delle questioni odierne

Per Marco Cappato, è quasi banale costatare che i temi trattati in questo Forum vanno oltre i confini nazionali. Spesso l’impotenza della politica istituzionale, dei parlamenti e delle assemblee elette è dovuta al contrasto tra la dimensione nazionale della politica e quella transnazionale delle grandi questioni che traversano il nostro tempo. La gestione politica del progresso scientifico e tecnologico, l’intelligenza artificiale, le modificazioni del genoma sono questioni che travalicano, già dal momento della ricerca e poi delle applicazioni, le istituzioni nazionali. Non avere istituzioni democratiche transnazionali o averli insufficientemente democratiche o non abbastanza efficaci, è una delle ragioni della crisi politica del nostro tempo. 

La conoscenza, bene comune, garanzia di libertà e responsabilità individuali

Conosco, seppure non sufficientemente, i principi della filosofia dei beni comuni, avendo lavorato al Parlamento Europeo con Stefano Rodotà.  Al tempo, ero relatore per il rispetto della privacy nelle comunicazioni elettroniche. Era l’inizio degli anni 2000 e già emergeva la questione della conoscenza come bene comune.  Sono convinto che, sia dell’angolo delle proibizioni che da quello degli obblighi, è la conoscenza il bene comune più importante per garantire libertà e responsabilità individuali. E questo è sempre più vero nella misura in cui la nostra vita è sempre di più determinata da elementi immateriali con l’invasione del digitale in tutte le attività umane. Né proibizioni né obblighi vanno accettati o rifiutati in modo assoluto. Non esiste un principio di libertà, all’interno di un sistema costituzionale, di difesa dei diritti fondamentali, che possa essere accampato come assoluto. Ora sono impegnato sul tema dell’eutanasia. Ho praticato la disobbedienza civile. Sono stato arrestato in Gran Bretagna manifestando sul tema del proibizionismo di droghe e cannabis. Non è che noi, come associazione Luca Coscioni, sosteniamo che la libertà deve essere assoluta. In materia di droghe, come pure in materia di fine vita, le regole servono.  Anzi, è proprio per distinguere, per poter parlare del fine vita, che deve essere dovutamente ascoltato l’appello, la chiamata di una persona che necessita di aiuto, di cure palliative, d’assistenza psichiatrica, sociale, psicologica, per vivere. Magari chiede di morire, ma se li fossero date le cure indispensabili, anche per uscire da una condizione di solitudine, la scelta non sarebbe quella di voler morire. La convinzione di dover superare il proibizionismo sta nell’idea che proibizioni e clandestinità sono l’ambito peggiore per fornire aiuto alle persone. 

La legalizzazione non significa liberalizzazione: le regole servono a governare i problemi

Noi non siamo per liberalizzare le droghe, che si possa comperare l’eroina al supermercato. Neppure per la liberalizzazione dell’eutanasia, per delle persone in preda ad un momento di depressione perfettamente curabile, o con una deficienza fisica o sotto l’effetto di droghe. Le regole servono a governare i problemi e le questioni. Anche temi delicati come i vaccini e i rapporti con la scienza, non possono essere affrontati con gli assoluti. È evidente che c’è una ragione nell’idea che ci sia un interesse pubblico nel fatto che le persone si vaccinino, perché la mia vaccinazione non riguarda solo me stesso, ma pure la salute degli altri. Come hanno fatto i Paesi che su altre patologie, lasciando stare il coronavirus, hanno raggiunto la copertura, l’immunità di gregge, senza nessun bisogno di forzare la mano con degli obblighi? Come è stato possibile? È stato possibile, attraverso la conoscenza, l’informazione, il dibattito pubblico. Ecco perché ritengo che la conoscenza sia il tratto che accomuna proibizioni e obblighi. È sbagliato dire che si potrebbe risolvere questioni delicate (come il vaccino) con una linea politica di assoluta proibizione, di assoluta liberalizzazione o di assoluta imposizione; oppure con l’impossibilità o l’incapacità di un potere pubblico d’imporre in talune circostanze degli obblighi. 

L’investimento nella conoscenza riduce lo spazio della coercizione

È l’investimento nella conoscenza, nella democrazia, nella partecipazione e nella scelta che passa per il coinvolgimento dei cittadini, a ridurre lo spazio della coercizione. Più conoscenza e più partecipazione democratica si riesce a compiere, meno lo stato sarà, tra virgolette, costretto (a volte si costringe da solo) ad usare strumenti o schemi propri della proibizione. La conoscenza fa tutta la differenza tra regole che rimangono sulla carta e quelle che difendono davvero le persone. La proposta sul testamento biologico prevedeva l’obbligo di una campagna d’informazione. Non c’è scritto nella legge. L’informazione è un bene comune, conoscere le regole sul fine vita, quando e come fare il testamento biologico, come esercitare i diritti annessi. In Italia, finora, il testamento biologico è stato fatto da circa 200.000 persone, quindi pochissime. Questo perché l’informazione non è stata diffusa. Sono convinto che uno studio su quelle persone ci porterebbe a costatare che sono persone di cultura e reddito medio-alto. Ed è questo il grave problema di una conoscenza elitaria, perché lo stato non investe per garantire che essa arrivi a tutti gli strati sociali. Sebbene un diritto sia riconosciuto sulla carta, in realtà soltanto chi ha gli strumenti culturali o economici per affermarlo è veramente libero di sceglierlo.

L’eutanasia, un processo progressivo, dove la conoscenza gioca un ruolo fondamentale 

Per la battaglia sull’eutanasia, che ho seguito personalmente, sono stato assolto due volte rispetto all’art. 580 del Codice penale che punisce con pene da 5 a 12 anni di carcere il reato di istigazione e di aiuto al suicidio. Questo reato, che data 1930, è stato introdotto col codice Rocco ai tempi del fascismo, quando non esistevano i malati terminali, ma esisteva il bisogno di imporre un principio, quello della superiorità dello interesse dello stato sulla libertà individuale. Poi è arrivata la Costituzione nel 1948 a dirci che nessuno può essere sottoposto a trattamento sanitario contro la propria volontà, tranne nei casi previsti dalla legge, e con una motivazione specifica. Qui rientra o può rientrare in determinate circostanza, non in assoluto, il trattamento sanitario obbligatorio, come i vaccini. Alla Costituzione è seguita una lunga fase di giurisprudenza, con il caso Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, due persone tenute in vita con strumenti sanitari. I giudici sono arrivati progressivamente a riconoscere l’art. 13 della Costituzione, secondo il quale “la libertà personale è inviolabile “, desumendo da ciò il diritto all’autodeterminazione del malato. Poi si è arrivato alla legge sul testamento biologico e alla sentenza della Corte costituzionale stabilendo che nonostante l’art. 580 del Codice penale del 1930, in talune condizioni il malato terminale può essere aiutato a morire attraverso la somministrazione di una sostanza eutanasica. 

Il dialogo possibile, intorno ai punti di accordo e di disaccordo 

Sull’eutanasia i nostri avversari veri non sono quelli che sono contro, ma l’indifferenza e l’ignoranza su tema. Sono convinto che con una parte del mondo cattolico che è ferocemente contro, potremo fare le battaglie per le cure palliative, per l’assistenza ai malati, per la prevenzione della richiesta di eutanasia. Certo, le nostre strade si separano, quando noi chiediamo di riconoscere il diritto a decidere sulla fine della propria vita e, loro, chiedono invece, l’indisponibilità della vita. Non sto dicendo che se c’è conoscenza e dibattito siamo tutti d’accordo. Sto dicendo che se c’è conoscenza e dibattito, il disaccordo si limita a dei punti di soluzione del come si regolano le materie. Ma la portata della conoscenza che si ottiene col dibattito beneficia a tutti: quelli a favore e quelli contro. Per questo tra l’altro, in Italia, la legge di iniziativa popolare a favore dell’eutanasia, che avevamo depositato quasi otto anni fa, non è mai stata discussa, nemmeno un minuto, dal Parlamento. A questo punto, nel mese di luglio iniziamo la campana referendaria per la legalizzazione dell’eutanasia, per dare ai cittadini la possibilità di scegliere direttamente su questo tema. Io spero che sarà un’occasione, tra l’altro, di discutere il rapporto con la scienza, menzionato da Ugo Mattei. Anche su questo è bene non essere manichei, non cercare il bianco o il nero. La scienza ha portato uno spettacolare miglioramento della qualità della vita su tanti piani. Ovviamente, è anche un potere che non deve essere lasciato libero dal controllo democratico. C’è un rapporto stretto tra la questione dello sviluppo tecnologico e quella del fine vita. Il tema del fine vita è diventato popolare grazie allo spettacolare progresso della medicina nel riuscire a tenere in vita le persone, anche in condizioni di malattia estrema. Questo non deve significare che siamo obbligati a restare in vita perché la tecnologia ce lo permette. Ma proprio perché la tecnologia ci dà delle possibilità di vivere o di sopravvivere, deve essere riconosciuto alla persona, e non alla scienza, alla tecnologia o al medico o chi altro per noi, di decidere quando il limite della sofferenza, la insopportabilità di una condizione sanitaria, è stato travalicato. Ossia quando passiamo dalla gioia, la felicità della vita, o comunque dalla voglia di vivere, di battersi per curarsi, per restare in vita, alla condizione di non voler più vivere perché la sofferenza è diventata senza soluzione ed è irreversibile. Quindi non abbiamo più la prospettiva di libertà che è parte connaturata alla vita, che non può essere un obbligo, una tortura: la vita deve essere un diritto di libertà e questo è il tema fondamentale che un approccio dei beni comuni e della conoscenza come bene comune ci deve far tenere.

La legalizzazione, indispensabile a creare ricerca, conoscenza e cultura di regole e diritti

Riguardo all’aborto, in Italia è legale, ma la differenza risiede nell’accesso all’aborto legale di chi conosce e di chi non conosce i propri diritti. Pensiamo alle donne immigrate clandestine, che sono oggi le vittime principali dell’aborto illegale e clandestino, conseguenza della discriminazione nella conoscenza. Lo stesso discorso vale sulle droghe. Esiste per esempio una cultura del vino. Nessuno di noi mette sullo stesso piano un alcolizzato che beve dalle taniche di plastica e un sommelier. La cultura del vino è possibile grazie alla legalità. Nel proibizionismo le droghe conoscono solo lo spazio della criminalità e dell’abuso e non quello della cultura come invece sarebbe possibile. Dopo 50 anni di proibizionismo, sta riprendendo la ricerca scientifica sugli psichedelici, sull’LSD, sull’ayahuasca, sulla psilocibina, per utilizzarli nelle cure contro la depressione e altre patologie del genere. Per 50 anni tale ricerca è stata bloccata dal proibizionismo. 

La strada del futuro: assemblee cittadine, decisioni cittadine e referendum

È fondamentale che le persone siano coinvolte attraverso lo strumento della partecipazione democratica. In Irlanda, non riuscendo a sbloccare il dibattito in materia di matrimonio egualitario di persone dello stesso sesso e di aborto, perché la materia, come sempre in questi ambiti, era diventata ideologizzata. Quindi l’assemblea elettiva non era in grado di superare lo scontro frontale. Come ne sono usciti? Con assemblee di cittadini estratti a sorte che hanno integrato, non sostituito, il dibattito parlamentare con delle proposte, poi votate nei referendum. Ecco il circolo virtuoso: assemblee di cittadini estratti a sorte, decisione dei cittadini e referendum. Questo percorso, di crescita di consapevolezza, è un successo a prescindere del risultato. 

L’incapacità estesa della politica a governare la complessità delle sfide globali

Per Giacomo Marramao, la forbice che si è venuta a creare tra la politica nazionale e le sfide delle dimensioni transnazionali è grave. Ma ancor più grave è che i poteri globali sono anche loro impotenti a governare la complessità che abbiamo di fronte. Sia quelli della finanza capitalistica che quelli degli stati-continente, Stati Uniti, Cina in particolare, anche India, Russia, che sono ben più ampi degli stati-nazioni, hanno grosse difficoltà a governare la complessità dei processi globali. 

Non fare morire la politica: rinsaldare i legami tra generazioni  

Qui stiamo parlando nella prospettiva progettuale, e quindi anche pratico-politica, di un Forum Intergenerazionale. Ora, intergenerazionali è un termine cruciale. Hannah Arendt ha detto qualcosa di molto importante: se il rapporto tra le generazioni si spezza, la politica finisce. Pertanto, la politica non finisce soltanto perché ha una spazialità ristretta, nazionale, ma anche perché manca di proiezione temporale. Se in quest’ultima c’è un vuoto, una incomunicabilità tra generazioni, la politica collassa. Ed è la situazione nella quale ci troviamo nella maggior parte delle democrazie occidentali, che sono diventate delle ‘democrature’. Democrazie dove soltanto la facciata è democratica: si vota sì, anche in Turchia si vota. Ma in realtà sono democrature perché la dinamica partecipativa e di condivisione delle decisioni, che dovrebbe essere propria di un sistema democratico, è assente. 

Non fare morire la politica: considerare la libertà come un evento dinamico

Dobbiamo finire di considerare la libertà come uno statico principio, come un valore. La libertà va vista dinamicamente, è un evento. Dobbiamo progettare nella consapevolezza e nella fiducia che la libertà è qualcosa che fa irruzione nella storia ogni volta che le forme di dominazione appaiono insopportabili. E dobbiamo anche sapere che questa libertà non dipende da “leggi di movimento” rigide o bronzee della storia. Essa compare in tempi e luoghi nei quali non si sarebbe mai aspettato che facesse eruzione. La libertà è un evento straordinario, perché spesso nel corso della storia ci ha sorpreso. Dobbiamo muoverci in questa prospettiva. Soprattutto, la libertà è l’evento che determina la rottura delle forme di dominazione. Lo ripeto perché ci sono giuristi, anche democratici, che hanno recentemente teorizzato, che nello spazio pubblico la forma più saggia di libertà è l’obbedienza. Penso a Stefano Rodotà: avrebbe riso, ma poi si sarebbe ribellato a quest’idea. Sento qui accanto la sua risata e la sua indignazione. L’ubbidienza sans-phrase, senza alcuna determinazione, qualifica o contestualizzazione. Oppure alcuni psicoanalisti alla moda, ripetono che la vera libertà è la responsabilità. È anche vero. Ma non è il punto. Non è questa la congiuntura per dirlo, altrimenti si fa il gioco del potere, di quello più ottuso. 

Non fare morire la politica: proteggere la sfera pubblica

Le democrazie si trasformano in democrature con la scomparsa della sfera pubblica. Con Stefano Rodotà quante discussioni, seminari, lavori in comuni, abbiamo fatto sulla crucialità della sfera pubblica. La sfera pubblica è quella che dovrebbe contenere quello che Marco Cappato giustamente intendeva: il diritto ad un’informazione corretta, democratica, diritto al bene comune conoscenza. Nella sua assenza, non c’è democrazia, non ci può essere democrazia. 

Evitare interventi retorici e inefficaci: andare alla radice dei problemi, seppur complessi

Partiamo delle sfide della pandemia. Finché non andremo alla radice di questo problema, ogni intervento sarà puramente retorico, in attesa di un nuovo virus, che naturalmente dobbiamo attenderci. Alcuni dicono che l’origine della pandemia sta nel riscaldamento, nel ‘global warming’. Certo, ma da cosa dipende il global warming? Dalla violenza estrattiva del capitale globale. Anche io ho scritto sull’antropocene per spiegare la pandemia, ma è il capitale globale, l’antropocene capitalistica globale, che ha esercitato una violenza estrattiva sistematica sulle risorse naturali, sulle forme di vita animali e vegetali del pianeta. Il virus proviene dalla deforestazione, dallo spillover, dal salto dall’animale all’umano, da animali scacciati dal loro habitat naturale. Siamo stati noi a produrre questo orrore. Finché non andremo alle radici di questi problemi, misure come i vaccini non serviranno, perché tra due anni dovremmo studiarne e sperimentarne altri, alla comparsa di un nuovo virus. Se non consideriamo i problemi provocati nell’equilibrio del pianeta, non riusciremo a venire fuori da questa situazione. 

Le strategie della paura e le politiche di deresponsabilizzazione dei poteri odierni

Come si comporta il potere riguardo a quello che sta accadendo? Con due logiche opposte e complementari. Con la politica della deresponsabilizzazione o con la strategia allarmistica della paura. Basti pensare da un lato agli esempi di Trump e Bolsonaro: totale deresponsabilizzazione, il virus è un’influenza come altre, e via dicendo. E, dall’altro, alla retorica della responsabilità dei governi liberaldemocratici, che decretano misure spesso contraddittorie senza andare mai alla radice del problema.  Difficile non vedere in questo contrasto una sotterranea complicità tra le strategie della paura e le strategie della deresponsabilizzazione. Si tratta in realtà di due facce della stessa medaglia. 

La scienza deve guidare un andare avanti progressivo, qualitativo e non quantitativo

Come uscire dall’impasse attuale? Prima di tutto, considerando la libertà come spazio comune, come scelta per dar luogo ad un agire comune.  E poi: con la co-responsabilità.  Costruire la dimensione di un’effettiva responsabilità comunitaria, radicata in un agire comunitario. Mentre quel che abbiamo di fronte è, da un lato, una serie di limitazioni spesso ingiustificate e comunque assurde alla libertà delle popolazioni con argomenti oscillanti tra la paura, l’ansia, e, dall’altro, la deresponsabilizzazione. In questo la scienza, come diceva Marco Cappato, ha un ruolo. Sono convinto con un autore a me molto caro, Walter Benjamin, che la tecnica può essere una chiave della felicità. La tecnica intesa come un andare avanti progressivo di tipo qualitativo e non quantitativo. Dunque, non violento ed estrattivo. Certamente, la scienza è una delle tante pratiche dell’operare umano. E come tutte queste pratiche, è erratica. Procede per tentativi ed errori. Si sbaglia e questo genera un dibattito interno.  Non vuol dire che la scienza non serva a nulla. Ma non facciamo una taumaturgia della scienza. Questa non ha poteri taumaturgici. La scienza non è quella che vediamo nei serial televisivi, nei film di fantascienza. È un’altra cosa. Oggi viviamo una fase nuova, straordinaria, quella dell’intelligenza artificiale. Su questa ci dobbiamo interrogare e dobbiamo operare nella profonda convinzione che la politica deve assumere non solo (la protezione) dei dati, ma anche la discussione interna alla comunità scientifica, in piena autonomia. E di conseguenza operare le scelte più opportune. 

La strada del futuro: intrecciare democrazia rappresentativa e dei consigli, propria ai territori 

Una politica seria, oggi, è una politica che, operando nei territori, nelle forme di vita, ricostituisca una rete politica globale, in grado di rompere quella che io chiamo la “populizzazione” dei capitalismi politici. Perché attenzione, il capitalismo oggi è diventato un capitalismo geopolitico, articolato nelle potenze di vari capitalismi politici. Avevo tentato di spiegare questo in un mio libro intitolato “Dopo il Leviatano”. Partendo dal presupposto che c’è sì un capitale globale, finanziario soprattutto, ma non un capitalismo globale. Vi è una pluralità di capitalismi, non unico capitalismo. Vi è il capitalismo americano che è diverso da quello europeo, dal russo, cinese e indiano. Questo lo aveva visto molto bene il vecchio Karl Marx quando diceva che c’è da un lato l’occidente, l’Europa e l’America, e dall’altro lato, tre grandi civiltà che declinano il capitalismo in forme specifiche specifico: India, Cina, Russia. Non Giappone, che è dentro la prospettiva della società cinese, o dipendente dalla grande madre cinese. È molto importante questa caratterizzazione differenziata dei capitalismi all’interno di un mondo segnato dal capitale globale. Ma si tratta di capitalismi con forti caratterizzazioni politiche. Tutti populistici, o soggetti a processi di populizzazione. Come se ne esce? Secondo me con la capacità di portare avanti delle conoscenze politiche, delle teorie e pratiche politiche che siano in grado di rompere questo processo e di intrecciare due forme di democrazia, come detto da Marco Cappato. La democrazia rappresentativa, parlamentare, e la democrazia dei consigli che nasce dai contesti, dai territori, dalle forme di vita, di come gli esseri umani vivono nelle diverse dimensioni spaziali del pianeta. Mi rendo conto che è una sfida difficile. Difficile, certo. Ma possibile. 

Creare spiragli nel campo dei proibizionismi: il percorso portoghese verso l’eutanasia

Per José Manuel Pureza, in Portogallo, come in molti altri paesi, si sta rafforzando il movimento a favore della depenalizzazione della morte medicalmente assistita. Diverse leggi nazionali sono state modificate per accogliere la possibilità che, in certi casi, sia possibile anticipare la morte. C’è, quindi, uno scontro tra l’approccio fino ad ora dominante che, nel nome della “morte naturale”, impone un divieto generale a tutte le possibilità di anticiparla, e un approccio che introduce eccezioni a tale divieto, in nome della dignità che ciascuno intende essergli dovuto alla fine della propria vita. Il Codice penale vigente prevede una pena detentiva fino a tre anni per un medico che aiuta qualcuno ad anticipare la morte. 

In corrispondenza all’impulso di un ampio movimento sociale, cinque partiti hanno presentato proposte per la depenalizzazione della morte medicalmente assistita, approvate in prima lettura e che hanno dato origine ad una legge che prevede che la morte assistita sia ammissibile – sia sotto forma di suicidio assistito che di eutanasia attiva – nei casi estremi di malattia incurabile e di sofferenza insopportabile. La legge, approvata in Parlamento, è stata giudicata incostituzionale dal Tribunale Costituzionale e dovrà essere modificata per entrare in vigore.

Va sottolineato che quella approvata dal Parlamento non era una legge liberale, in contrasto totale con il proibizionismo del Codice penale. Diverse correnti di opinione sostenevano che il valore dell’autodeterminazione personale dovrebbe prendere il posto del valore dell’imposizione della vita fino al suo termine naturale, e che in tal modo ad ogni persona dovrebbe essere consentito di decidere liberamente il tempo e le modalità della propria morte. Non è stato questo ampio antiproibizionismo a prevalere. La legge approvata fa solo alcune eccezioni, rigorosamente descritte, alla regola, che continua a prevalere, del divieto di favoreggiamento del suicidio e dell’omicidio su richiesta della vittima. Solo persone con più di 18 anni, con malattie incurabili e mortali, agonizzanti e in sofferenza, in piena lucidità e che abbiano traversato una procedura nel corso nella quale due medici (eventualmente un terzo, psichiatra) e una commissione devono pronunciarsi e verificare la conformità ai requisiti legali. Solo in questi casi può esserci morte medicalmente assistita. Tutti gli altri restano vietati e costituiscono un reato.

Creare eccezioni nel campo dei proibizionismi significa porre limiti a quello assoluto

Le eccezioni che sono stata accettate dal Parlamento portoghese sono fondate su considerazioni umaniste e costruite sul principio della tolleranza. Il fondamento della legge sull’eutanasia, difesa da persone come me, è che non obbliga nessuno a comportamenti contrari alle proprie convinzioni profonde. Anzi, il Codice penale, basandosi sul proibizionismo assoluto, obbliga a tutti a conservare la vita pure in situazioni di grande degradazione fisica e di sofferenza agonizzante. La situazione portoghese è questa. La decisione del Tribunale Costituzionale non metterà in discussione la proposta di legge, dunque possiamo pensare che la limitazione del proibizionismo, in questo campo, è un dato di fatto. L’esperienza concreta di porre limiti al proibizionismo e di contrapporre a questo una maggiore apertura democratica e un rispetto più grande per le decisioni libere e illuminate di tutte le persone, è il fondamento stesso della vita democratica. 

La strada del futuro: lavorare sui confini tra divieto e libertà

Tutto questo solleva ovviamente il problema del rapporto tra la libertà individuale di determinare la durata della vita e il consenso etico prevalente in ogni società sul primato del diritto alla vita. Sappiamo che, nelle democrazie moderne, il diritto alla vita non equivale all’obbligo di vivere in qualsiasi circostanza e che il principio di tutela della vita deve articolarsi con il principio della dignità della persona e del libero sviluppo della personalità. Ma la disputa sui confini tra questi principi – e quindi tra divieto e libertà – è una disputa continua e apparentemente senza soluzione nel breve termine.  

Gli spazi di dialogo politico per le giovani generazioni

Per Alessia Ciravegna è stato bellissimo sentire diversi punti di vista: quello dell’attivista politico, del filosofo, del parlamentare: ora lei contribuisce alla prospettiva delle generazioni future, che rappresenta. Prendendo spunto da H. Arendt: l’umanità di ciascuno si ribella al cento per cento nell’attività politica e la dignità umana di ogni individuo trova la sua massima valorizzazione soltanto quando si riesce a ritagliarsi spazi di dialogo (come il Forum di oggi). Domanda: quali sono gli spazi di dialogo delle giovani generazioni e quali quelli che si vogliono tramandare al futuro? Spesso si dice che ai giovani la politica non interessa. Questo è un mito. Non è vero. Ma ci sono delle evidenti difficoltà nel dialogo intergenerazionale perché i giovani hanno perso totalmente la fiducia nei partiti politici. Già nel 2017, un’inchiesta dell’Economist mostrava che la generazione dei millenium, nati fra gli anni 80 e il 2000, è molto meno incline, rispetto alle generazioni precedenti, a credere nelle promesse fatte in campagna elettorale. Le giovani generazioni non si fidano più dei partiti, e li vedono come le fabbriche del consenso, le tifoserie opposte, a cui si riferiva Ugo Mattei. E forse non si riconoscono nemmeno nelle politiche pubbliche e questo perché, data l’età media dell’elettorato, i partiti non hanno grandi interessi a portare avanti politiche giovanili. Però, politica non vuol dire per forza partiti. Il termine politica deriva dal greco polis, città, cittadinanza. Fare politica non vuol dire dividersi in schieramenti opposti, fare politica vuol dire prendere l’iniziativa, partecipare alla vita pubblica e ritagliare quegli spazi di dialogo che secondo H. Arendt definiscono la dignità dell’essere umano. 

Al di fuori dalle strutture partitiche, lo slancio politico dei giovani protegge i beni comuni

Non si può negare lo slancio politico delle giovani generazioni. Due esempi: il movimento di Fridays for Future, per la lotta contro il cambiamento climatico, e Black Lives Matter, contro il razzismo sistematico negli Stati Uniti. Questi due eventi di mobilitazione giovanile hanno visto la partecipazione di milioni di studenti in tutto il mondo, che si sono espressi con grande forza e anche con obiettivi politici chiari e precisi su queste tematiche. Sono chiaramente esempi di attivismo politico. Seppur sia vero che le giovani generazioni non si riconoscono in un modello di politica partitica, esprimono grande interesse per i temi essenziali della contemporaneità. Parliamo di giovani che sono scesi in piazza per esprimere il loro desiderio di futuro, di un mondo nel quale non ci sia inquinamento, rischi di salute per loro e le generazioni future e contro delle scelte politiche ed economiche che peggiorano l’inquinamento del pianeta, l’emissione dei gas a effetto serra, e via dicendo. Giovani che immaginano un mondo senza discriminazione nel quale ognuno è libero di esprimersi, libero di uscire di casa indipendentemente della propria etnia, senza trovarsi in situazioni di pericolo. Nella prospettiva di questo Forum questi sono esempi di politica giovanile che salvaguardano i beni comuni. Questi spazi di dialogo che i giovani riescono a conquistare, devono essere valorizzati. Si deve fare tutto il possibile per amplificare le loro voci se vogliamo trasmettere alle generazioni future spazi di dialogo più aperti e inclusivi. Si devono combattere quei politici che cercano di spegnere l’attivismo giovanile e le voci dei partecipanti. In riferimento ai due esempi fatti prima, penso a tutti gli eventi di attacchi personali che sono stati fatti ai leader di questi movimenti, penso a Greta Thumberg, ai partecipanti delle manifestazioni, principalmente da politici conservatori di destra, i quali non criticano fondamentalmente il contenuto delle manifestazioni, ma attaccano personalmente, con la fallacia comunicativa, organizzatori e manifestanti, e cercano di sminuire la portata di queste istanze giovanili. Noi dobbiamo lottare contro tutte le forme di oppressione, anche se non sembrano tali a prima vista.

Legittimare la partecipazione democratica dei giovani: votare a 16 anni

Un altro esempio di questo tipo di atteggiamento, “ai giovani la politica non interessa, tanto non capiscono niente di politica”, è la questione dell’estensione del diritto di voto ai sedicenni. Non mi dilungo su questo tema né vi incito a sostenere questa proposta di legge, ma vi invito a non sostenere chi vuole stroncare il dibattito con la solita massima: i giovani non capiscono, etc. Vi invito a riflettere sul fatto che a 16 anni decade l’obbligo scolastico, dunque si presume che l’individuo è sufficientemente formato per introdursi nella vita sociale come soggetto autonomo. A 16 anni si può gestire un’impresa, lavorare e, essendo il caso, pagare le tasse, come i cittadini maggiorenni. Quindi parliamo di persone che possono inserirsi nel tessuto sociale, produttivo, ma che poi non hanno il diritto politico di esprimersi con un voto circa questioni che chiaramente li riguardano da vicino. 

Non stroncare i dibattiti sugli spazi di libertà e di espressione

Questo è un invito a non fermarsi a conclusioni semplicistiche di chi non vuol affrontare i problemi. Bisogna sostenere il dibattito pubblico, perché la discussione razionale, il confronto tra gli uomini all’interno di spazi di dialogo sono essenziali alla nostra libertà. Questo lo diceva già J. Stuart Mill (1806-1873). Senza dibattito pubblico, senza discussione intergenerazionale non si può andare avanti. Secondo Mill, la libertà di espressione non poteva mai essere limitata, in nessun caso. Per questo filosofo, qualsiasi forma di limitazione all’espressione era illegittima. Anche qui dobbiamo discutere su cosa tramandare alle generazioni future. Pensare che la libertà di espressione non possa mai essere limitata comporterebbe il cadere in un relativismo culturale, a mio avviso, pericoloso. Per cui non condivido l’opinione secondo cui qualsiasi opinione è accettabile e va difesa nel nome della libertà di espressione. Secondo me, il valore da tramandare alle generazioni future è quello della tolleranza. In una società tollerante le forme d’intolleranza, le opinioni intolleranti, devono essere emarginate perché queste, a lungo andare, portano alla morte della società tollerante: questo è il paradosso della tolleranza di Karl Popper.  La riflessione su questo tema è importante quando il dibattito pubblico è monopolizzato da questioni come quella del disegno di legge (DDL) Zan (approvata dalla Camera dei Deputati in novembre 2020). Forze conservatrici di destra dicono che questo DDL limita la libertà d’espressione e opera una forma di censura circa determinate opinioni, nonostante l’art 4 ribadisca che non si vuole in nessun caso intaccare la libertà di espressione e il pluralismo delle idee. Spero che riusciremo a tramandare alle generazioni future un mondo in cui ognuno è libero di esprimersi, di amare chi vuole, come vuole, di vivere liberamente la propria sessualità, il proprio corpo, la propria identità. All’interno del dibattito democratico sono sempre fondamentali le opinioni contrastanti. Questo DDL, qualora fosse approvato dal Senato, verrebbe applicato soltanto nel caso di una comprovata correlazione tra l’opinione intollerante di una persona, che magari ha anche un certo rilievo sull’opinione pubblica, e un caso di violenza, di pericolo concreto per i soggetti che questa legge vuole difendere. Detto questo, questo DDL difende opinioni contrastanti come quella che nessuno sarà processato per essersi espresso contrariamente, per esempio rispetto all’adozione delle copie gay. Non si tratta di questo. Si tratta di creare un mondo libero, uno stato libero, in cui ognuno sia al sicuro di non rischiare perché è oggetto di discriminazione. 

 

Far emergere nel dibattito pubblico temi essenziali che vengono dismessi o ignorati

Dopo i beni comuni spazio di dialogo e libertà di espressione, parlerò della salute mentale. Ci troviamo ad affrontare un presente soffocante, come diceva Gilda Farrell, in cui è difficile immaginare il futuro. Questo ha determinato una crisi della salute mentale. Delle restrizioni sono state imposte per salvaguardare il bene comune salute fisica, del corpo.  Ma la salute mentale è altrettanto importante. La pandemia ha prodotto una crisi parallela, quella della salute mentale. La fascia di popolazione tra 18 e 24 anni, secondo il giornale The Guardian, è stata maggiormente colpita da questa crisi. Se la salute mentale non diventa una priorità per qualsiasi agenda politica, rischiamo di trovarci domani con delle generazioni future traumatizzate da questo periodo storico. Generazioni future malate e incapaci d’affrontare le grandi sfide del futuro. Un adolescente su quattro ha commesso atti di autolesionismo nel Regno Unito dall’inizio della pandemia ad oggi. Il silenzio dei giornali, del dibattito pubblico e dei politici su questo tema è diventato assordante. E ora di parlarne, di fare qualcosa, perché la salute mentale è un bene comune da tramandare. 

La strada del futuro: abbracciare una nuova morale

Concludo invitandovi ad abbracciare una nuova morale perché i valori non sono degli enti immutabili che ci guardano dall’alto, ma cose che devono restare dinamiche, che devono poter cambiare. La morale deontologica kantiana agisce sul dovere, che ha dominato il pensiero moderno e che ci è stato inculcato da quando siamo piccoli: il senso del dovere è qualcosa che ognuno di noi sente. Hans Jonas, ha rivoluzionato, nel 1979, la morale kantiana offrendo un nuovo spunto, un nuovo imperativo categorico. Al posto di agire per il dovere, agire a fine di non compromettere in nessun modo la permanenza illimitata dell’uomo sulla terra. Se saremo capaci di andare aldilà delle bandiere politiche, delle ideologie, abbracciando questa nuova morale, allora riusciremo ad affrontare le sfide della contemporaneità e a tramandare un mondo migliore alle generazioni future. 

Articolare democrazia e conoscenza in tutti i campi del bene comune

Rispondendo a Samuel Thirion, che domandava come articolare democrazie e conoscenza, non soltanto rispetto a questioni specifiche come l’aborto, ma in modo più generali sul bene comune, Marco Cappato ha usato la formula: scuola, formazione; servizio pubblico dell’informazione; partecipazione democratica e scienza/metodo scientifico. Scuola e formazione sono alla base della conoscenza. Col progredire dell’intelligenza artificiale la scuola deve spostarsi dalla trasmissione di nozioni o di semplici competenze per diventare capacità d’analisi, logica, critica.  Il dilagare di fake news sarebbe minore se a scuola si insegnasse il pensiero critico, già dai primi anni, come la capacità di dominare la statistica elementare per non essere vittime d’imbrogli, che sembrano evidenti, ma che si diffondono in fretta nella rete. Poi c’è la questione del dibattito e della partecipazione democratica, legata al servizio pubblico. È fondamentale investire nel bene comune informazione, non solo come fine a sé stesso, ma collegato alle scelte. I grandi dibattiti democratici devono essere accompagnati da un grosso lavoro del servizio pubblico. Se si discute il DDL Zan, ci devono essere dibattiti, non un semplice talk show, dove chi vince è colui che la spara più grossa, ma per una conoscenza di massa: ciò che propone il DDL Zan, la legge sul testamento biologico, etc. La connessione tra servizio pubblico e movimento decisionale è fondamentale. Poi c’è il tema della scienza: è o non è democratica?  La scienza è anche un potere, soprattutto tecnologico più che come investigazione scientifica. Ma la scienza è anche un metodo che ha molto in comune con la democrazia, anche se non può confondersi con questa. Ciò che il metodo scientifico ha in comune col metodo democratico è il non riconoscere un’autorità rivelata superiore. La fine degli assolutismi e autoritarismi politici dall’inizio della democrazia ha conciso col riconoscere che la parola del sovrano, del papa, del potente, non era inconfutabile. Poteva essere contestata democraticamente. 

Il metodo scientifico ha qualcosa di simile, che non è nel voto a maggioranza. Ovviamente non votiamo a maggioranza la legge di gravità o l’efficacia di un vaccino. Quello che hanno in comune è che non esiste una verità assoluta che dobbiamo accettare a prescindere. E questo è importantissimo anche nei temi ecologici, dei quali parlava Alessia Ciravegna. Non a caso Greta Thumberg richiama sempre alla scienza, al metodo scientifico. La libertà di espressione deve essere assoluta, finché non diventa un pericolo di violenza, di odio nei confronti degli altri. Al tempo stesso non si può accettare che una qualsiasi opinione valga quanto un’altra. Certo la mia opinione vale quanto quella di ciascun altro se si è pro o contro l’eutanasia, la legalizzazione della droga, etc. Ma se le questioni sono le temperature del pianeta, il ruolo del CO2, dei gas a effetto serra, l’efficacia o no di un vaccino, l’efficacia delle cure palliative in fine vita, è il metodo scientifico che può affermare o correggere le risposte, con la ricerca scientifica. Formazione scolastica, servizio pubblico e metodo scientifico sono tre dimensioni che si devono tenere insieme per costruire la conoscenza come bene comune, per la democrazia. La possibilità di decidere insieme sulle soluzioni migliori. Questo approccio non riguarda un tema individuale, ma è una questione di metodo che traversa tutti i temi che richiedono decisione pubblica e quindi, dibattito politico. 

La competitocrazia distrugge la democrazia 

Gabrielle Galliani commenta che se la partitocrazia decideva nel passato per gli altri, siamo confrontati all’emergere di partiti personalistici e alla competitocrazia: il governo dei competenti. Nessun può intervenire se non è competente. Si richiede la competenza. Stiamo formando una specie di leviatano della competenza, dove la democrazia non ha ruolo. Si può intervenire, dare un’opinione soltanto sulla base di competenze acquisite. Ma, chi decide chi è competente? Come uscirne di questo leviatano delle competenze, nel breve periodo? Nel lungo periodo, Marco Cappato ne ha già risposto. 

Gli strumenti della democrazia partecipativa

Alla domanda di Samuel Thirion, se assemblee cittadine, come in Irlanda, promosse per superare il problema di lotta ideologica tra conservatori e liberali, si potrebbero applicare al dibattito sull’eutanasia in Portogallo, Josè Manuel Pureza risponde che questa tematica è stata una delle più dibattute nella democrazia portoghese. Negli ultimi 3 o 4 anni, la società portoghese si mobilitò e auto-organizzò la promozione di dibattiti in comuni, comunità religiosi, ONGs, etc. Lui personalmente ha partecipato a riunioni con persone di origini, confessioni religiose, livelli culturali e classi sociali differenti, in tutto il Paese. Il dibattito sull’eutanasia ha mobilitato molta intelligenza del popolo portoghese. Comunque, in Portogallo non esistono esperienze di assemblee cittadine per istituzionalizzare dibattiti di natura diversa. Paradossalmente nel dibattito sull’eutanasia, la destra conservatrice utilizzò l’argomento del referendum per impedire il dibattito parlamentare. Sottomettere diritti personali a referendum, soprattutto in momenti di tensione emozionali, assoggetta i diritti di minoranze a decisioni di maggioranza. In queste materie i parlamentari hanno la responsabilità di riunire, il più ampiamente possibile, informazioni scientifiche, opinioni, etc. per lavorare ad una legge prudente, equilibrata e determinata, con una logica di tolleranza e con l’obbiettivo di porre fine al proibizionismo assoluto. 

Veicolare la tolleranza nelle scuole 

Alla domanda di una madre adottiva di una bambina senegalese di come veicolare un messaggio di tolleranza concretamente nelle scuole, e come fare informazione all’interno delle scuole, su tematiche come la DDL Zan, per avvicinare i ragazzi alla politica di Elga Malossi, Alessia Ciravegna risponde che gli spiace per gli episodi di intolleranza, che purtroppo sono frequenti, nonostante in Italia, da tempo, si parla di questi argomenti (per esempio con la legge Mancino sulle discriminazioni che è del 1993). È convinta che sia possibile portare il valore della tolleranza nelle scuole, ma deve partire dalle famiglie per essere veramente efficace, soprattutto quando si tratta di bambini piccoli. I bambini non nascono con idee d’intolleranza, le ereditano da qualcuno e si sviluppano sulla base degli insegnamenti che gli vengono dati. Il discorso sulla tolleranza nelle scuole deve essere portato secondo le età: Alle elementari si può fare un discorso pratico, siamo tutti uguali, è sbagliato discriminare e spiegare il perché; alle medie deve essere più evoluto per terminare il percorso educativo con spiegazioni etiche e di principi sull’origine di queste idee di discriminazione e razzismo nella nostra società. 

Portare a conoscenza del pubblico le grandi sofferenze fisiche

Rispondendo a Elga Malossi, attiva in una associazione di assistenza a persone in grande sofferenza fisica (www.vitadignitosa) che raccoglie firme affinché possano scegliere l’eutanasia, Jose Manuel Pureza spiega che la forza di questa lotta è la conoscenza della realtà. Ossia, nei dibattiti su questo soggetto, le regole astratte, i principi giuridici e generali, hanno poco impatto se comparato con quelle delle storie concrete di sofferenza. La conoscenza delle situazioni reali di sofferenza, di rabbia per l’assenza di rispetto e la violenza che significa negare a qualcuno la dignità al momento della sua morte, disarma la retorica astratta, giuridica, etica generale e obbliga a posizioni di grande umiltà.  Rende solidari tutti i tentativi di portare alla conoscenza la sofferenza, perché, come diceva Marco Cappato, la conoscenza è un’arma centrale della democrazia. 

La terminologia conta: tolleranza o rispetto della radicale differenza dell’altro? 

Per Giacomo Marramao, oltre ad essere d’accordo sul voto a partire dai 16 anni, la tolleranza è certamente preferibile all’intolleranza. Ma essa presuppone una posizione di potere più elevata dalla parte di chi tollera. Va dunque sostituita col rispetto. E soprattutto con l’idea che l’altro, chiunque sia, è da rispettare nella sua differenza irriducibile a me. L’altro in qualche modo è la possibilità di un altro me stesso. Sono nato maschio, ma la donna è la possibilità che avevo; potevo nascere in Africa, in Bangladesh. Quindi, il rispetto dell’altro, della sua radicale differenza, è legato all’inevitabile contingenza del nostro essere al mondo e dobbiamo saperlo. 

La traiettoria del termine politica

Politica alla sua origine era un aggettivo sostantivato. Era l’insieme delle questioni che riguardano la città, la polis. In Platone non è ancora un sostantivo; il politico è un uomo politico. È con Aristotele che il termine viene sdoganato e diventa scientifico, diventa la politica come noi l’intendiamo. Il tema del rapporto tra politica e città è essenziale. È curioso che il termine politica e il termine filosofia nascono insieme. Sono coevi, a cavallo tra il quinto e il quarto secolo A.C. E quindi la filosofia nasce legata alla politica, alla città con Socrate. Dopo il suo processo e morte, politica e filosofia hanno una separazione, un’ostilità reciproca che è bene che rimanga in certo senso, anche se questo appare impopolare. 

Democrazia è dissenso, non ubbidienza né equiparazione delle opinioni

Se la democrazia diventa lo spazio del livellamento delle opinioni, il talkshow, la totale equiparazione delle opinioni, allora siamo mesi male. E bene quindi utilizzare la scienza come una pratica del sapere, in grado di rompere con qualunque autorità prestabilita, senza paura di rovesciare le autorità, come diceva Marco Cappato. Ovviamente questo significa non fare della scienza, a sua volta, un’autorità ipse dixit: ha detto lo scienziato. Un momento, lo scienziato sta discutendo con un altro, alcune cose importanti. Ma sicuramente non vi può essere in democrazia una equiparazione delle opinioni. Questo significa dare valore alla conoscenza al di là del consenso. L’eredita del XXImo secolo ci ha insegnato che identificare la democrazia col consenso è una pessima opzione. I peggiori sistemi totalitari hanno avuto il consenso della stragrande maggioranza dei cittadini: da Mussolini in Italia, a Hitler in Germania. Ciò che caratterizza la democrazia è il dissenso, la possibilità della critica. Negar potere alla maggioranza in quanto tale e di conseguenza la professione costituzionale rispetto ad ogni possibile prevaricazione o tirannia della maggioranza. La vera democrazia è quella che si alimenta giorno dopo giorno delle attività libere dei cittadini. Senza queste non c’è democrazia. 

Partiti politici e interpretazione politica dei cittadini

La crisi dei partiti, altro tema che Alessia Ciravegna ha toccato, è semplice da decifrare. I partiti sono ormai dei partiti di eletti che tendono a preservare le loro prerogative, il loro posto al di là e oltre ogni ostacolo. Non sono più partiti di cittadini, di militanti. Max Weber, il maggiore sociologo finora esistito, morto a 56 anni nel 1920 di una pandemia, la spagnola, aveva detto: una democrazia entra in crisi quando il numero di quelli che vivono di politica supera il numero di coloro che vivono per la politica. Non era un utopista. Diceva che è normale che vi siano professionisti della politica, ma se questi superano di gran lunga quelli che vivono per la politica, siamo nei guai. Ed è questo che sta accadendo nel mondo dei partiti. 

Informazione bene comune, antidoto di tifoserie opposte 

Alessia Ciravegna ringrazia per le precisazioni che Giacomo Marramao ha apportato con il suo intervento. Riguardo alla separazione dalla politica della filosofia, c’è stata e c’è ancora perché il politico è sempre in cerca di consenso, vuol essere amato, mentre al filosofo questo non interessa. Quindi, il conflitto, il contrasto, è inevitabile perché il filosofo sarà sempre disposto a dire delle cose scomode a differenza del politico. Per quanto riguarda la domanda di Gilda Farrell, come affrontare vecchi e nuovi proibizionismi e imposizioni, rispondo come Marco Cappato, con l’informazione bene comune: le opinioni lasciano sempre il tempo che trovano e su temi così importanti, se ognuno va avanti con la propria opinione, divisi in schieramenti opposti, non si arriva da nessuna parte. L’importante è informare riguardo alle conseguenze dei proibizionismi e poi pensare alle soluzioni. Il proibizionismo rispetto alle droghe produce vantaggi per la criminalità organizzata; quello sulla prostituzione, sfruttamento; quello sull’aborto, rischio di vita per chi lo pratica senza assistenza. 

Assemblee dei cittadini, istituzione chiave per far progredire la democrazia

Per Marco Cappato, “Politici per caso” è una campagna per chiedere in Italia l’istituzione di assemblee di cittadini estratti a sorte. Non come sostituzione dei parlamenti, ma come integrazione, per un processo democratico che non sia solo elettorale, del consenso, del marketing elettorale, ma sia pure frutto di una discussione slegata dalla dimensione elettorale. Mi collego a ciò che diceva Alessia Ciravegna sui partiti. È vero che la politica non è solo quella fatta dai partiti, ma dobbiamo anche immaginare una possibilità che i partiti diventino qualcosa di diverso di quello che sono adesso. Al posto di essere soltanto delle agenzie che portano le persone in parlamento o nelle assemblee, diventino utilizzatori degli strumenti della partecipazione. E questo non come eccezione. L’art. 49 della Costituzione non dice che i partiti servono a eleggere persone nel Parlamento, ma dice che servono a concorrere e determinare la politica. Questo non si fa solo con le elezioni, ma col referendum, con la iniziativa popolare, con le assemblee dei cittadini estratti a sorte. Provare quindi a vedere la dimensione della politica al di fuori dei partiti, certo, ma anche gli stessi partiti usando gli strumenti della partecipazione per fare politica. Questo crea cultura, conoscenza, informazione. 

L’uno vale uno, non può appiattire e negare il valore del metodo scientifico

E riprendendo la questione posta da Gabrielle Galliani: come evitare di soggiacere alla dittatura degli esperti, domando, come siamo arrivati a questa situazione? Per una sorte di contrappasso, di due estremi che si toccano: il principio dell’uno vale uno e la sua assolutizzazione; la ricerca scientifica e la sua assolutizzazione. È chiaro che in democrazie il voto di uno vale uno, ma non è così se stiamo parlando di una questione tecnica. Non si può mettere allo stesso piano ricerca scientifica e opinione. Poi è chiaro che la ricerca scientifica non va assolutizzata e che la scienza è Popperianamente costruita sulla falsificazione. Non c’è, non ci può essere il dogma scientifico. Allo stesso tempo, un ambito di competenza tecnica deve essere valutato con i criteri del metodo scientifico. Negare il valore al metodo scientifico e, quindi, appiattire l’assolutizzazione dell’uno vale uno, ha come contraccolpo, non dico necessariamente, che per uscire dell’appiattimento si dica “allora decidano gli esperti”. Noi dobbiamo percorrere la faticosa strada di separare nettamente l’ambito di decisioni o pareri degli esperti dall’ambito della decisione democratica e quindi far dialogare queste due dimensioni. 

La democrazia partecipativa richiede investimento pubblico

Rispetto alla domanda di Gilda Farrell sul ruolo dell’investimento pubblico, chiedo quanti soldi si investono oggi per far funzionare la democrazia elettorale? Decine di miliardi per elezioni, campagne elettorali, apertura dei seggi, funzionamento dei parlamenti, etc. Va benissimo. Ma quanti si investono per far funzionare la partecipazione democratica fuori dalle elezioni? Praticamente zero. Dobbiamo ora raccogliere le firme per il referendum sull’eutanasia, stampare i moduli, trovare i certificatori, etc. Si dà per scontato che la democrazia della partecipazione sia a carico del cittadino, mentre la democrazia elettorale rimane a carico dello stato. Invece, una parte della democrazia elettorale dovrebbe essere a carico del cittadino, dell’attivista, del militante, per fare in modo che sia trasparente, etc. La democrazia della partecipazione non deve essere para-statalizzata, non è questo il punto, ma deve usufruire di investimenti di servizio pubblico. Non si pretende di essere pagati dallo stato per fare un referendum, ma la conoscenza sul quesito, il fatto che si possa andare a firmare, cosa è un’iniziativa popolare, etc. devono essere sostenute da investimento pubblico. Faccio un esempio. 

Abbiamo pagato con i soldi di Eumans, il movimento paneuropeo di cittadini per la sostenibilità e la democrazia, un sondaggio su quanti cittadini in Europa conoscono cos’è l’Iniziativa dei Cittadini Europei, l’unico strumento di partecipazione previsto dai trattati dell’UE. Un milione di persone che firmano, in sette paesi membri, può obbligare la Commissione Europea a rispondere ad una proposta. Lo stiamo facendo su StopGlobalWarming.eu, per spostare le tasse dal lavoro all’emissione di CO2. Il risultato del sondaggio realizzato da Yougov, dunque un istituto serio, è che 2,4% dei cittadini europei sono a conoscenza di tale iniziativa. Quindi, cosa possono fare i comitati promotori che raccolgono il milione di firme in sette paesi membri? Si caricano le spese di traduzione del materiale, l’informazione e la costruzione della rete, di fronte al fatto che 2,4% degli Europei sanno di che cosa si sta’ parlando? Un milione di firme su StopGlobalWarming si raccoglierebbero senza problema, invece siamo a 60.000 firme perché nessuno sa di cosa si tratta. Allora, conoscenza vuol dire tante cose: regole, scuola, informazione ma anche soldi. Bisogna investire, ovviamente senza sprecare e avendo un controllo pubblico sulla qualità dell’informazione, altrimenti nessuna democrazia è possibile, né quella della partecipazione, e neppure quella elettorale.

José Manuel Pureza diceva giustamente che il referendum è uno strumento a rischio. Non avremmo seguito la strada referendaria sull’eutanasia in Italia se non fosse che da otto anni non otteniamo la discussione della legge, dopo due processi e atti di disobbedienza civile. Il referendum può essere pure uno strumento profondamente antidemocratico – come con la Brexit – se l’informazione non è corretta. La partecipazione può diventare manipolazione delle persone, demagogia, istigazione delle piazze e al populismo, alla violenza, se non c’è conoscenza, informazione e regole. Quindi non solo le elezioni producono un risultato pessimo se non c’è conoscenza, ma anche la partecipazione democratica.

Conoscenza, sempre conoscenza

Per José Manuel Pureza, ci sono punti in comune e di convergenza tra le due realtà ed esperienze italiana e portoghese, sia nel campo della morte assistita che in altri campi, soprattutto in ciò che riguarda l’importanza della conoscenza e, soprattutto, l’articolazione tra conoscenza e partecipazione. Si deve fare di quest’articolazione un’arma contro un proibizionismo che perpetua molte ingiustizie nelle nostre società. 

Non tutti possono fare politica, ma tutti devono poter giudicarla

Paolo Pantano riafferma quanto detto da Giacomo Marramao: la tolleranza presuppone una posizione elevata, è meglio parlare del rispetto. Ma ci sono tanti altri campi dove far attenzione alla terminologia. Meglio usare interazione che integrazione, perché è una cultura superiore che integra, creando violenza in confronto di chi ha un’altra cultura, un altro cibo, etc. Sul concetto uno vale uno, forse ci dovremo riferire a Pericle nel 400 A.C.: benché pochi siano in grado di dar vita ad una politica, tutti siamo in grado di giudicarla. Così, il senso più forte d’uno vale uno, non è che tutti possono fare politica, ma che tutti siano in grado de capirla, anche chi non ha avuto grandi opportunità di formazione.

Gilda Farrell