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di Alessandro Monchietto

 

«Dev’esserci stato un momento, all’inizio,
in cui avremmo potuto dire di no.
Ma chissà come ci è sfuggito».
Rosencratz e Guilderstern sono morti (1990).

 

 

  1. Non c’è nessuna emergenza futura per la quale dobbiamo prepararci.

    L’emergenza è qui. E ci mostra quel che non volevamo vedere.
    Ogni elemento distopico, così come ogni possibile strumento di rivoluzione, è già parte del nostro presente. Sta a noi fronteggiarli, perché nessuno verrà a salvarci.
    I politici sono affetti da una sorta di miopia programmatica, le élite preferirebbero tuffarsi in una catastrofe sociale e climatica piuttosto che lasciar morire il capitalismo.
    In un contesto come questo, il destino delle Generazioni Future viene semplicemente lasciato fuori dalla discussione e dall’orizzonte.
    Sta a noi individuare i mezzi per sopravvivere alla loro catastrofe.
    Perché un’altra fine del mondo è possibile.

 

  1. Non c’è normalità alla quale ritornare, quando quello che abbiamo reso normale ieri ci ha condotto alla catastrofe di oggi.
    La nostra società denigra le persone che si battono per ciò che è giusto. Ci viene detto che non si può cambiare nulla, che dobbiamo stare per conto nostro e, soprattutto, che non dobbiamo reagire.
    In fondo basta abituarsi ad accogliere la catastrofe come rumore di fondo.
    La maggior parte di noi è consapevole di quel che sta accadendo attorno a sé, perlomeno a un livello sotterraneo; in superficie tuttavia manteniamo un atteggiamento di assoluta normalità, quasi una regola tacita che impegna tutti a negare ciò che esiste.
    In questo momento non riusciamo a far altro che navigare a vista: non c’è rotta, ci si limita a cercare di schivare gli iceberg.
    O meglio, sappiamo chiaramente che il nostro futuro assomiglia a una bomba ad orologeria sepolta, di cui non conosciamo il momento della detonazione, ma che fa sentire nel presente il suo ticchettio. E, con tutte le nostre forze, cerchiamo di far finta di niente.
    In certe situazioni il diniego è inevitabile.
    La consapevolezza frustrata, infatti, è un sentimento che nessuno riesce a reggere a lungo. O diviene spinta all’agire, o si muta in un impulso quasi salutare a volgere altrove i propri occhi, a dimenticare.
    Questo per un motivo molto semplice: non siamo in grado di affrontare continuamente verità spiacevoli.

 

  1. Siamo cresciuti in una cultura di isolamento e di sconfitta, dove il nostro potenziale viene indirizzato a soddisfare le richieste di un sistema economico insensato e amorale. Ci svegliamo giorno dopo giorno, generazione dopo generazione, per continuare ad alimentare lo stesso incubo da cui ci sentiamo perseguitati.
    Ci affanniamo per tirare avanti, viviamo di stipendio in stipendio solo per continuare a saziare la sete bulimica di una società miope.
    Seppelliti sotto preoccupazioni personali, debiti e paure, siamo costretti a badare solo a noi stessi. Ma sappiamo di poter intraprendere una vita diversa.

 

  1. La rivoluzione è una linea che tracciamo nel presente.

    Dobbiamo lasciare alle nostre spalle il tempo dell’isolamento e costruire “anticorpi” contro quel paradigma – individualista e competitivo – che ammorba la nostra esistenza.In mezzo alla catastrofe climatica, alla rovina economica, si fa pressante l’esigenza di attivare una rete di persone pronte a vivere e combattere, a raccogliere esperienze e competenze, a costruire infrastrutture e strumenti per forgiare un mondo diverso.
    Pezzo dopo pezzo, possiamo costruire le fondamenta di una forza rivoluzionaria. Generazioni Future intende sostenere la nascita di pratiche e pensieri divergenti che ci permettano di sperimentare modi diversi di stare assieme.

 

  1. Per cominciare, proviamo a oltrepassare l’isolamento.
    Tagliamo le stronzate, smettiamola di disperdere il nostro potenziale critico in un arcipelago di attivismo da tastiera.
    Rivolgiamoci alle persone più vicine a noi e condividiamo con loro il desiderio di contatto e coinvolgimento, di riavvicinamento sociale.
    Trovatevi e chiedetevi l’un l’altro: come possiamo affrontare il mondo insieme? Su cosa possiamo contare? Di cosa abbiamo bisogno?
    Fate un inventario delle vostre abilità, capacità, connessioni. Stabilite le basi per una vita in comune, assumete decisioni che aumentino la vostra forza.
    Cercate altre persone che si stanno organizzando, prendete contatto con loro, scambiate resoconti e strategie in modo che la memoria culturale e l’intelligenza operativa della rete cresca. Create connessioni materiali, condividete e scambiate risorse.
    Moltiplicate questo gesto per migliaia.

 

  1. Individuate buone pratiche solidali, e provate a riprodurle.

    Possiamo chiamarle indifferentemente forme di resistenza, strategie di sopravvivenza, casi studio. L’importante è dotarsi di un set di soluzioni efficaci (da quelle più specifiche e individuali, fino a quelle collettive e generali) da poter rivedere, riadattare, replicare.
    Mappare queste realtà è un modo per prendere familiarità con le logiche organizzative, i pro e i contro di realtà già esistenti, ed esaminarne i tratti di riproducibilità, al fine di poter presto passare dalla logica delle buone pratiche alla realtà delle pratiche effettive.

 

  1. Create forme collettive di cura.

    Organizzatevi pensando ai prossimi vent’anni. Chiedetevi l’un l’altro come cambieranno i vostri bisogni (quando avrete figli, quando invecchierete, quando le vostre routine non appariranno più così rassicuranti). Immaginate come gli spazi che abitate potranno accogliere la natura dinamica dell’esistere, del lottare. Affrontate le domande più difficili, quelle che riguardano la vostra fragilità. Una rete intergenerazionale si forma per affrontare l’insieme della vita: dobbiamo fare in modo di sentirci meno fragili, meno esposti alla contingenza, meno soli.

 

  1. Riconquistate la meraviglia di imparare.

    Di scoprirvi concettualmente inermi. Provate a formulare nuove categorie che vi permettano di passare dalle semplici narrazioni di ciò che accade (quelle che troppo spesso ci limitiamo a riportare passivamente) a dei veri e propri referti clinici, a delle categorizzazioni di ciò che viviamo. Operazioni che ci permettano di riarrangiare il nostro immaginario e di dilatare il nostro orizzonte di possibilità.
    Per agire in maniera realmente emancipante è innanzitutto necessario mettersi nelle condizioni mentali e intellettuali di ridiscutere il proprio quadro concettuale, di oltrepassare i confini della propria zona di comfort professionale, culturale, politica.

 

  1. Mettete a punto strumenti di autodifesa, innanzitutto digitale.
    Saper ragionare in maniera critica, valutando prima di agire, è una competenza cruciale in un mondo sempre più guidato dagli imperativi economici del Capitalismo della Sorveglianza.
    Vogliamo davvero vivere in un mondo in cui le “nuove tecnologie” ci offrono la possibilità di non dover scegliere nulla, perché scelgono loro al posto nostro, liberandoci dal fardello della libertà? Siamo condannati a vivere all’interno di procedure profilanti architettate per farci reagire a stimoli prefabbricati, o è possibile individuare alternative agli ambienti digitali commerciali e al controllo da essi esercitato?
    La degooglizzazione non sarà di certo un pranzo di gala, ma è ancora possibile recuperare il tempo perduto senza restare a guardare come stronzi.

 

  1. La condivisione di esperienze, la creazione di strumenti validi e replicabili ovunque, permette di porre le basi per la costruzione di una cittadinanza che sia attiva e consapevole, all’interno della quale si coltivino relazioni e rapporti mutualistici, basati sulla solidarietà e la condivisione. Una comunità che si faccia e sia “resistenza”.
    Affrontiamo questo compito con rigorosa serenità.
    Vogliamo costruire comunità ecologicamente sostenibili, in cui sia possibile soddisfare i nostri bisogni e le nostre aspirazioni senza ridurre le possibilità di sopravvivenza per le Generazioni Future. Territori autonomi e infrastrutture flessibili, che permettano di erodere le solitudini sociali in cui siamo costretti. Linee di faglia nate dalla gioia collettiva, abitate da un modo di vivere dignitoso e coraggioso.

 

  1. È evidente che il capitalismo sia inadeguato a risolvere i problemi che ha creato, dall’ambiente alle diseguaglianze sociali. E che sia oramai impossibile rimettere il dentifricio nel tubetto.

    Quello che si può – e si deve – fare, è ridurre progressivamente il campo in cui è il meccanismo impersonale del mercato a regolare i nostri rapporti, ed estendere il campo in cui sono le nostre volontà coscienti a riunirsi su basi paritetiche nel formare una scelta collettiva. Realizzare una società in cui siano i bisogni degli individui e della collettività a muovere la produzione e l’allocazione delle risorse, e non la semplice sete di profitto.
    Vincere è possibile, se lottiamo insieme.

 

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  1. Adelio Alquà 8 Febbraio 2022 at 23:02 - Reply

    Ho quasi settant’anni e qualche tempo fa mi sono detto: deve esserci stato un momento in cui avremmo potuto dire di no, ma non l’abbiamo fatto.
    Eravamo troppo impegnati a vivere quella che ci dicevano essere la migliore delle vite possibili.
    Ora quando guardo i miei nipoti mi si stringe il cuore, perché il mondo che volevo per loro è proprio il contrario del mondo che gli lascio.
    Nello stesso tempo, questa reazione insperata, istintiva, irriflessa, di un pur minimo numero di persone, in difesa dell’ultima proprietà, forse l’unica degna di essere rivendicata, che ci rimane, il nostro corpo, mi dona un po’ di speranza.
    Allora mi dico che val la pena di continuare a vivere per trasmettere, quel tanto che si può, a questi benedetti bambini una parola che esprima un altro senso.
    Si, finché ci saranno persone che sapranno mettersi assieme per cambiare le cose, non tutto è perduto; di certo almeno per loro, perché vivranno una vera avventura.

    • Valeria Dalla Bona 11 Febbraio 2022 at 17:13 - Reply

      Caro Adelio, quanto è vero e struggente quel che hai scritto! Mi ci ritrovo profondamente. Non scoraggiamoci. La prima rivoluzione l’abbiamo “fallita” negli anni 60/70 ma soprattutto perché eravamo troppo giovani, ingenui, inesperti. Ma questa seconda rivoluzione non la falliremo! Siamo più pronti di quanto non crediamo, ma troppo divisi, isolati gli uni dagli altri, scoraggiati. Uniamoci tutti in seno alla Cooperativa Generazioni Future, una meravigliosa opportunità che si è venuta a creare e che ora è una creatura che aspetta solo di essere nutrita e cresciuta in potenza e molteplici possibilità di azione da tutti noi, cittadini consapevoli e ancora meravigliosamente umani. A presto Adelio.
      Valeria Dalla Bona

      • dott. Ramingo 12 Febbraio 2022 at 00:39 - Reply

        Cara Valeria, non eravate “ingenui e inesperti”, eravate Giovani e perfettamente armonici con l’onda della Libertà, totale, sorridente, fricchettona, il punto più alto della Cultura e società Occidentali (Arti a quel momento collegate comprese).
        Non tu (mi permetto il tono anni Settanta) ma alcuni (pochi, infami, luridi) che allora ti giravano insieme sono i colpevoli non del “fallimento” ma del “tradimento”: “ribelli-mamma” (grazie Freak Antoni) a 20 anni e CAPITALISTI a 50. D’Alema mentore e burattinaio di Speranza in primis.
        Se colpa hai (avete) è di non aver annichilito da piccoli questi Disumani quando avevano “i peli del culo a batuffoli”, averli lasciati crescere e arrampicarsi sui rapaci destrorsi, costruire carriere e poteri, mentre hippies e radicali e indiani metropolitani si accontentavano genuinamente di Vivere, di continuare la propria vita in quel clima, senza accondiscendere al Sistema, accusati di peterpanismo, ma poetici e puri.
        Tolti i succitati baffetti sinistri e affini e emuli articolouniani, tutto il resto della tua generazione (parlo del 1977) era perfetto, dubbi e contraddizioni e errori inclusi, poiché la Libertà è difficile ogni giorno, ma così appagante, così gaudente, così radiosa…
        Forse l’unica Colpa è non aver saputo passare quello spirito a figli e nipoti, viziandoli di consumismo per sopperire a divorzi, caos interpersonali, invecchiamento senza continuità a se stessi.
        Ma non si bestemmi mai quell’Era Rivoluzionaria, poiché il suo opposto, il pronismo apatico digitale vigente, ce ne ricorda la differenza e il valore.
        Chi nel 1977 avrebbe potuto imporre l’obbligo di un farmaco genetico??? Chi avrebbe porto il braccio, se non per puntare un’arma? E non lo dico per nostalgia del gesto della p38, ma per far comprendere che è l’ovinizzazione quarantennale delle menti il problema forse irrisolvibile.

  2. dott. Ramingo 10 Febbraio 2022 at 02:39 - Reply

    Il nocciolo (il killer seriale) centrato da Monchietto è palese, addirittura banale: il Capitalismo.
    Chiedetevi perché vi siano due soli grandi opposizioni al Regime Vaccinista vigente: anarchici ed estrema destra, i due unici restanti fronti Anticapitalisti (aggiungete, volendo, Rizzo e qualche altro sparuto “rosso” memore di se stesso).
    La parola stessa “Capitalismo” è totalmente uscita dal vulgus mediatico da almeno 30 anni: vengano contati i servizi giornalistici (video, audio, testuali) in cui essa è citata. Si citano il “liberismo” e i suoi affini, ma il termine chiave, origine, fine, è taciuto.
    Nascondere il nocciolo è la strategia dei veri Totalitarismi.
    Quello attuale non nasce nel 2020. Nasce con la scomparsa della definizione del Sistema.

  3. giorgio degasperi 11 Febbraio 2022 at 22:23 - Reply

    grazie per le oneste parole
    negli ultimi 10 anni mi sono posto molti degli obiettivi elencati nella parte conclusiva dell’articolo, in un progetto di divulgazione e condivisione che abbiamo chiamato eucrazia…
    vi è solo una nota, che forse è un mio difetto di lettura, sulla quale vorrei portare l’attenzione.
    L’articolo mi pare risenta di un vecchio modello di riferimento, cioè la rivoluzione come un atto che prelude al sole dell’avvenire. Vorrei sbagliarmi ovviamente, ma se così non fosse, mi propongo di aggiungere una riflessione che è proprio il frutto di tanti dialoghi nati in eucrazia. Si tratta proprio di un cambio di paradigma nella lettura dei fenomeni a noi circostanti, per il quale la rivoluzione, che abbiamo preferito chiamare transizione, è in atto e tocca a noi viverla giorno per giorno nelle decine di esperienze e testimonianze che hanno già da molto iniziato a vivere in quel altro mondo possibile. così con una metafora ci tocca fare lo sforzo di unire i puntini di un disegno in fieri ma che ha già dei connotati riconoscibili e che alla prova dei fatti è stato presente anche in questo periodo di “crisi”. Con questo ancora ringrazio per aver messo energia e pensieri costruttivi, senza fermarsi alla, pur doverosa, critica.

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