Articolo di Ugo Mattei pubblicato su Europa Futura https://www.europafutura.eu/riflettere-sul-referendum-del-2011/

“Riflettere sul Referendum del 2011”, il cui decennale verrà celebrato il 12 giugno a Roma  con una Assemblea di Generazioni Future , è per chi scrive un’occasione di percorrere le tappe della propria vita politica dell’ultimo decennio. I referendum sull’acqua furono la risposta democratica a una paradossale situazione verificatasi dopo che, nella primavera del 2008, la Commissione Ministeriale (Giustizia) per la Riforma del Libro III del Codice Civile (più nota come “Commissione Rodotà”, dall’illustre nome del Suo Presidente) consegnò i suoi lavori frutto di quasi un anno di studio e approfondimento collettivo. In quel testo si normava per la prima volta il concetto di beni comuni e l’acqua veniva collocata al vertice della lista esemplificativa. Giorni dopo, a seguito delle dimissioni del Guardasigilli Mastella, cadde l’ultimo Governo Prodi e il DDL Rodotà fu abbandonato in un cassetto di Via Arenula.

Lo stratagemma che Stefano Rodotà, Alberto Lucarelli e io ci inventammo per far riemergere il DDL sepolto da oltre un anno, fu di farlo presentare da una Regione, la quale, ai sensi dell’Art. 120 della Costituzione (Riforma del Titolo V del 2001) ha potere di iniziativa parlamentare nazionale. A rendersi disponibile per portare avanti questa istanza fu il Vicepresidente del Consiglio Regionale Piemontese Roberto Placido, il quale insieme a Giampiero Leo, con maestria, ottenne un voto unanime dell’Assemblea Regionale per presentare il DDL Rodotà di propria iniziativa. Era la prima volta che questo potere ex Art. 120 veniva esercitato, e si sperava che la cosa potesse avere un impatto, almeno politico, capace di restituire serietà alle iniziative legislative non governative. Ciò non sarebbe successo né allora né successivamente, ma ancora non lo sapevamo.

In un primo momento, nel novembre 2009 la proposta della Regione Piemonte, presentata in Senato, sembrò catturare una certa attenzione. Il 19 venne allestita la Sala Nassirya per una conferenza stampa di presentazione. Erano annunciati esponenti politici importanti di entrambi i poli e fra i relatori, oltre ai Professori Guarino, Rodotà, Lucarelli e il sottoscritto ci fu anche il Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei Giovanni Conso. La Conferenza Stampa, tuttavia, fu un fallimento, perché proprio nello stesso momento, alla Camera dei Deputati, si votava la fiducia posta da Berlusconi sul c.d. Decreto Ronchi. Questo provvedimento obbligava la messa a gara (e dunque la sostanziale privatizzazione) a data certa di tutti i servizi pubblici locali di interesse economico, incluso quello idrico integrato (oltre a rifiuti, cimiteri, trasporti…). Un vero colpo di mano, che avrebbe comportato la dismissione a prezzo vile di beni pubblici e comuni costruiti nel corso di decenni, fin dalle celebri municipalizzate di Giolitti, con la fiscalità generale. Immaginiamo una situazione in cui, da qui a un anno, il veicolo di un cittadino non possa più circolare legalmente; immaginiamo che costui sia al contempo costretto a venderlo: è ovvio che non troverebbe un acquirente che, essendo al corrente del contesto, gli offrirà un buon prezzo!

La schizofrenia era totale. Al Senato l’acqua era in testa nella lista dei beni comuni da “governare fuori mercato e nell’interesse delle generazioni future” secondo il DDl Rodotà. Alla Camera, allo stesso tempo, si faceva passare l’obbligo di gestirla in modo privatistico e a fini di lucro, nell’ambito di una nuova privatizzazione infrastrutturale, il cui valore stimato superò i  200 (forse 250) miliardi; vale a dire più delle “grandi privatizzazioni” dei primi anni Novanta. La misura era colma. Appena atterrato a Torino, contattai Rodotà e Lucarelli. Non restava che il referendum, da far subito nella primissima finestra disponibile. Ci mettemmo al lavoro e producemmo tre quesiti. Costituimmo in fretta e furia un Comitato Referendario con sede legale all’International University College di Torino. Elaborammo i quesiti e un documento di accompagnamento. Bisognava muoversi subito. Non c’era tempo da perdere. L’impresa sembrava impossibile, ma la causa era nobile.

La misura era colma. Appena atterrato a Torino, contattai Rodotà e Lucarelli.
Non restava che il referendum, da far subito nella primissima finestra disponibile.

Il mese successivo fu trascorso a superare le perplessità del Forum nazionale movimenti dell’acqua, all’epoca impegnato su una legge di iniziativa popolare. I compagni temevano che il referendum avrebbe avuto un impatto negativo sul buon esito della “loro” LIP. Inoltre, risentivano la “verticalità” un po’ tecnocratica di una iniziativa presentata da sei giuristi (Stefano Rodotà, Alberto Lucarelli, Luca Nivarra, Giovanni Ferrara, Gaetano Azzariti e il sottoscritto). I compagni del Forum, convinti del loro metodo del consenso, erano restii a rendersi conto che la partita o si giocava subito o mai più, perché nessun’altra finestra poteva aprirsi prima del dicembre 2011.  Finalmente, fu raggiunto un accordo con quasi tutti i movimenti ma non con il partito di Di Pietro (Italia dei Valori),  il quale non volle sottostare alla decisione di un comitato referendario departitizzato.

Per capire l’impatto devastante della mossa di Di Pietro, occorre spiegare brevemente l’impianto immaginato dai tre quesiti infine presentati col Forum. Il primo infatti abrogava il Decreto Ronchi nella parte in cui obbligava alla dismissione di tutti i servizi pubblici. Il secondo, specificamente dedicato all’acqua, aboliva profitti e rendite gestionali impedendo la “remunerazione del capitale investito” prevista alla scandalosa cifra del 7%. Il terzo e ultimo avrebbe vietato l’utilizzo della forma S.P.A nel governo dell’ acqua, aprendo obbligatoriamente la via alla trasformazione in Azienda Speciale di diritto pubblico. Di Pietro tuttavia voleva mantenere la formula delle S.P.A miste, probabilmente perché anche il suo partito, come tutti gli altri, ne poteva trarre benefici. Egli presentò quindi un proprio quesito, contraddittorio rispetto al nostro terzo, inquinando la linearità del disegno e offrendo così alla Corte l’assist per non mettere davvero a rischio lo status quo.

Festosamente io stesso misi, il 22 aprile 2010, la prima firma sui moduli torinesi nel frattempo stampati in ampio numero.
La raccolta di firme fu un trionfo senza precedenti, con la gente in fila ai banchini e quasi 200.000 firme raccolte fra il 25 aprile e il primo maggio. Avremmo poi raggiunto un milione e seicentomila firme per i  nostri tre referendum. Purtroppo per noi, anche Di Pietro raggiunse, per il rotto della cuffia, la soglia necessaria per il suo ma, per fortuna, anche i Verdi, promotori di un nuovo referendum sul nucleare, raggiunsero il mezzo milione.
La parola ora era in Corte Costituzionale. Il clima politico era avvelenato dalla menzogna sistematica del regime e dei suoi opportunisti cantori neoliberali, perché il Governo sosteneva che il Decreto Ronchi fosse un atto obbligatorio di diritto europeo non sottoponibile perciò a Referendum ai sensi dell’ Art. 75 della Costituzione. La Corte decise: non esisteva obbligo europeo. Due quesiti su tre furono ammessi. Respinto il nostro terzo (quello che prevedeva il divieto di gestione tramite S.P.A.). Respinto il quesito di Di Pietro. Questi ultimi due avrebbero prefigurato risultati contraddittori in caso di accoglimento. La Corte pilatescamente non volle scegliere fra i due e li respinse entrambi. Sui beni comuni fu un successo importante ma tecnicamente monco. Le vicende dei successivi dieci anni lo avrebbero dimostrato.

A ogni buon conto, la campagna referendaria, denominata “Due sì per l’acqua bene comune”, fu entusiasmante proprio perché i media non ci diedero alcuno spazio e si evitò perciò, in parte, lo spettacolo patetico dei galletti che si beccano per essere invitati in TV. Personalmente partecipai a decine e decine di serate, in ogni angolo della penisola. Altri fecero lo stesso spiegando in lungo e in largo che la lotta contro la privatizzazione non significava difesa di una gestione burocratica o partitocratica, ma l’esatto contrario. Bloccate le privatizzazioni, si possono immaginare buone istituzioni di governo dei beni comuni, con il coinvolgimento delle comunità di utenti e lavoratori previste dall’Art. 43 della Costituzione.

Anche in virtù dell’incidente di Fukushima, che risvegliò la paura per le catastrofi nucleari, gli Italiani andarono a votare in massa e si raggiunse l’altissimo quorum del 50%. Oltre 27 milioni di voti per il SÌ all’abrogazione (oltre 95% dei votanti). La prima e finora unica vittoria di massa in Italia contro neoliberismo e privatizzazioni era stata raggiunta. La maggioranza assoluta degli Italiani aventi diritto al voto disse due volte sì all’acqua bene comune. Oltre 200 miliardi erano per il momento salvi.

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  1. Enrico Bellandi 7 Luglio 2022 at 21:25 - Reply

    Belle fave, ancora se ne paga le conseguenze.

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