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La biodiversità e i beni comuni, essenziali alla vita

Cinzia Scaffidi parte da una definizione di beni comuni data da Franco Cassano, chiarendo che la caratteristica principale dei beni comuni non è che sono scarsi o che stanno finendo: la ragione per la quale i beni comuni vanno tutelati è che sono essenziali alla vita. Per questa ragione devono necessariamente avere un assetto che non può essere quello del mercato. Un bene essenziale alla vita, se diventa oggetto di mercato, conferisce a chi lo vende un potere incontrollabile e chi lo deve comperare non è affatto libero di farlo. Parliamo tanto di “libero mercato”, ma se il mercato incrocia i beni comuni questa libertà va in frantumi.  Se applichiamo questo alla biodiversità, cioè a tutte le forme viventi e agli ecosistemi che ci sono sul pianeta, la definizione sarebbe tautologica, la biodiversità è essenziale alla vita, perché la biodiversità è la vita. 

Ciò importa chiarire qui è la “diversità”: sulla parte “bio” abbiamo le idee abbastanza chiare, mentre sulla diversità non ragioniamo a sufficienza. 

La semplificazione della diversità conduce alla fragilità 

Tutti i sistemi uniformi, che diventano uniformi perché si impoveriscono o si semplificano, in natura sono sistemi fragili, vulnerabili. Questo è evidente nell’agricoltura, dove le monoculture, che eliminano la diversità preesistente a favore di una sola specie, sono sistemi di coltivazione fragili che vanno aiutati in termini di energia, di irrigazione, di pesticidi e fertilizzanti. Se un ecosistema non è messo in condizioni di fare da sé, di auto sostenersi, chiaramente deve essere sostenuto dall’esterno, dai cosiddetti input. I sistemi uniformi, deboli, sono costantemente in pericolo. Un parassita che colpisce un orto diversificato farà un danno limitato. Lo stesso parassita colpendo uno spazio di monocultura, danneggerà l’intera coltura perché si tratta di una sola specie. 

Ma allora: perché i sistemi uniformi e semplificati sono così diffusi, sebbene siano così vulnerabili? 

La tecnologia e la chimica intervengono su questa vulnerabilità. A fronte di questo, che potrebbe sembrare uno svantaggio, hanno l’enorme vantaggio di consentire grandi profitti in tempi molto rapidi. In società orientate all’economia, la questione del profitto prende il sopravvento sulla biodiversità. Cosa significa ottenere profitto in tempi brevi? Cosa significa impostazione capitalista della produzione? Significa guadagnare molto in poco tempo… 

Anche perché questi sistemi non possono durare a lungo. Se una cosa ci ha insegnato il virus è che il tempo veloce è finito.  La mancanza di biodiversità colpisce aspetti diversi e crea problemi con il clima, la salute pubblica, l’inquinamento, gli insetti (l’alto livello di monocultura indebolisce le api perché la loro alimentazione diventa sempre più semplice, meno biodiversa). Noi siamo fatti di biodiversità. Non importa se siamo api o umani. Gli studi fatti sul microbiota, ovvero sulla ricchezza batterica del nostro intestino, dimostrano che anche lì stiamo perdendo biodiversità e quindi diventiamo più deboli dal punto di vista immunitario, troppo semplificato rispetto al numero di questioni che il nostro organismo deve affrontare. Per questa ragione ricorriamo a una serie di integratori (probiotici) o medicine che devono ricostituire la flora intestinale che abbiamo semplificato cibandoci in modo semplificato, con un’agricoltura semplificata e orientata all’industria. 

Abbiamo semplificato anche il nostro modo di vivere. Certo, è comodo avere tutti i servizi nello stesso posto e così costruiamo delle città che sono il paradiso in terra per i virus, che non devono fare nessuna fatica per trovare organismi sui quali proliferare.  

Oltre che con il modello di agricoltura, pure con quello della mobilità abbiamo contribuito a far sì che l’aria con le particelle inquinanti possa fare da taxi per il virus, spianandogli così la strada. 

Prima ancora, abbiamo invaso aree nelle quali non avremmo dovuto entrare. Siamo così entrati in contatto con una serie di organismi nuovi, assistendo così ai salti di specie che hanno dato avvio alla pandemia. 

Tendiamo a occuparci delle cose per poco tempo. Un anno fa tutti parlavano di salto di specie, ma non è durato.  Le questioni da gestire erano tali e tante che si è perso di vista il quadro generale del perché siamo arrivati alla pandemia. 

Inoltre, quando la biodiversità si assottiglia, si indebolisce, si impoverisce, non colpisce tutti allo stesso modo, e lo stesso accade con l’inquinamento o il cambiamento climatico: colpiscono prima i più poveri e i più deboli, quelli che non hanno fatto profitti rapidi, non si sono messi al sicuro e quindi sono i primi a fare le spese di tutti i cambiamenti e problematiche che derivano dalla mancanza di biodiversità. 

I beni comuni sono “di tutti” se riconosciuti come tali e curati 

Quando chiedo di chi sono i beni comuni ai miei allievi contemporanei, rispondono “sono di tutti”. E questo vuol dire che un tema culturale importante è stato assimilato. Però il nostro retaggio culturale e il nostro sistema giuridico lasciano questi beni senza protezione, li considerano “res nullius”. In un capitoletto del Piccolo Principe, il protagonista incontra un uomo indaffarato a contare le stelle. «Perché?»  gli domanda. «Perché sono mie» risponde l’uomo. Il Piccolo Principe non capisce e l’uomo dice: «Ti risulta che siano di qualcun altro?  Allora sono mie perché ci ho pensato per primo». La conseguenza del definire qualcosa come “di nessuno”, res nullius appunto, è che chiunque può appropriarsene. 

Il Piccolo Principe oppone a questa logica, quella dei beni comuni, quella della cura, e risponde, più o meno così: Io vivo in un piccolo pianeta di cui sono l’unico abitante, e quindi tutto quel che c’è è mio: ho delle cose delle quali devo occuparmi: possiedo una rosa che innaffio tutti i giorni…  possiedo tre vulcani dei quali spazzo il camino tutte le settimane, ho un baobab e devo stare attento perché se non lo contengo le radici avvolgeranno tutto il pianeta. Loro mi appartengono e lo sanno perché me ne prendo cura. Le stelle neanche lo sanno che sono tue. 

Questo è il ribaltamento della prospettiva: la proprietà intesa come responsabilità, come cura, e in definitiva come appartenenza, ed è tanto più vero nel caso della biodiversità. Quando ci si relaziona al vivente, possedere significa appartenere. Alla persona amata si dice: tu sei mio perché ti appartengo e gli amanti lo capiscono, ma non si riesce a trasferire questo sentimento nella nostra relazione con la natura. Eppure per quel che riguarda la biodiversità è chiaro questo legame, tant’è vero che quando la danneggiamo, danneggiamo noi stessi. E questo vale per tutti i beni comuni. E una caratteristica dei beni comuni proprio perché questi sono essenziali alla vita, di tutti e di tutto. Danneggiarli significa danneggiare la vita e quindi noi stessi. In questo senso non esistono “gli ecosistemi degli altri”. 

 

Il principio di precauzione si applica ad ogni livello, soprattutto in mancanza di conoscenza

Qualunque ecosistema è il nostro ecosistema. Quando portiamo anche un piccolo danno ad un ecosistema, delle api, delle formiche, dei pesci, portiamo un danno al nostro ecosistema, perché ci sono tante connessioni più o meno note, più o meno nascoste dalle quali tener conto. Di quelle note, possiamo tener conto perché le conosciamo. Su quelle meno note sarebbe bene mantenere la cautela, l’attenzione alla possibilità di fare un danno di cui non siamo in grado di prevedere l’impatto reale. In tutto questo il tema della sostenibilità si inserisce perché ci ha a che fare con la durata, cosa che in italiano non è immediatamente chiaro come lo è per gli anglofoni: to sustain significa prolungare nel tempo. Non significa rendere possibile dal punto di vista economico. Certo, c’è una sostenibilità sociale ed economica di cui tener conto, ma la parte fondamentale è la sostenibilità ambientale. 

Questo è un tema chiave che va spinto molto perché tutti continuano a raccontarci la storia del lupo, dei tre pilastrini: l’economia, l’elemento sociale e quello ambientale come se fossero equipollenti. Non lo sono. C’è una gerarchia alla cui cima c’è l’elemento chiave che, se salta,  fa saltare tutti gli altri ed è la questione ambientale. Se c’è la sostenibilità ambientale si può ragionare su quelle socioculturali ed economiche, altrimenti no. Abbiamo constatato, con la pandemia, come l’assenza di sostenibilità ambientale abbia fatto saltare le economie di mezzo mondo. Ma neanche in questo caso gli impatti sono stati gli stessi per tutti. C’è chi ne è uscito con le ossa rotte e chi ha subito danni limitati e temporanei e ha ricominciato molto preso a far soldi come prima o meglio di prima. I più ricchi del mondo sono usciti dalla crisi della pandemia da un bel po’.  

La resilienza dipende dalla salvaguardia della capacità vitale di poter ricominciare 

Riassumendo: la durabilità di un sistema vivente dipende dal livello di protezione della biodiversità. Questa ha degli elementi auto-organizzanti che non possiamo né prevedere né descrivere perché non li conosciamo, ma sappiamo che in un sistema molto diversificato, i problemi si risolvono più facilmente. In sistemi semplificati, i danni sono più ampi.  

Questo ci conduce al concetto di resilienza. Un sistema vivente è resiliente se il livello di biodiversità è stato mantenuto con una certa integrità. Se invece il sistema è impoverito ed indebolito, la resilienza, cioè la capacità di quel sistema di ritornare alla sua forma ideale nel tempo, dopo uno shock, di origine naturale o indotto dall’uomo, si riduce. Perché di fatto anche la resilienza è una misura di tempo, corrispondente al ciclo vitale di una specie o di un ecosistema. Una foresta impiega 10.000 anni a crescere in condizioni ideali. Se va a fuoco per via di un fulmine o viene distrutta per costruire un capannone, sono 10.000 anni buttati via. Non ne serviranno di meno perché essa si ricostituisca. E la sua resilienza ovviamente dipenderà anche dalla capacità vitale residua (se brucia tutta o in parte etc.). 

La Strategia Nazionale per la Biodiversità, più formalismo tecnocratico che pratiche cittadine

Per Dante Caserta l’Italia si è dotata nel 2010 di una Strategia Nazionale per la Biodiversità in risposta agli impegni assunti con la ratifica della Convenzione sulla Diversità Biologica (CDB, Rio de Janeiro, 1992) con la Legge n. 124 del 14/2/1994.  La Strategia considera la biodiversità e i servizi ecosistemici come capitale naturale da conservare, valutare e, per quanto possibile, ripristinare, per il loro valore intrinseco, ma anche per il loro valore economico e sociale fondamentali, perché possano continuare a sostenere in modo durevole la prosperità economica e il benessere umano. Entro il 2020, la Strategia avrebbe dovuto: a) garantire la conservazione della biodiversità, ed assicurare la salvaguardia e il ripristino dei servizi ecosistemici (…); b) ridurre sostanzialmente (…) l’impatto dei cambiamenti climatici sulla biodiversità (…) aumentando la resilienza degli ecosistemi naturali e seminaturali; c) integrare la conservazione della biodiversità nelle politiche economiche e di settore (…). Se guardiamo l’Italia del 2021 non si può certo dire che questi obbiettivi siano stati raggiunti. Seppure alcune cose sono state fatte, si è lontani da azioni concrete che siano in grado d’implementare nella vita quotidiana tutti questi obbiettivi.  

La biodiversità, un concetto ridotto al silenzio, mentre c’è la guerra per le risorse

Se è vero che oggi più che in passato se ne parla, la biodiversità resta un argomento molto marginale nel dibattito pubblico. Capita raramente di ascoltare questa parola nei talkshow, negli interventi di politici e penso non sia mai stata citata in riunioni di Confindustria o quanto meno nelle loro comunicazioni principali. Di ambiente si parla in termini di cambiamenti climatici o di inquinamento. La tutela della natura in sé sembra riguardare qualche “mattacchione” che si diverte a correre dietro una salamandrina con gli occhiali. Eppure, senza i servizi ecosistemici che la biodiversità ci fornisce, la nostra vita non sarebbe possibile. Agricoltura e industria non sarebbero possibili senza un quantitativo d’acqua, aria e suolo puliti. Non è un caso che intorno a questi elementi si concentrino tanti interessi e tante battaglie, perché i soggetti che cercano di utilizzare queste risorse sono sempre di più. E il quadro complessivo non migliora a livello planetario. Un anno fa Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, al Summit sulla Biodiversità disse che l’umanità aveva fatto la guerra alla natura e che andava ricostituita la relazione tra questa e l’uomo. Se poi andiamo a vedere gli obiettivi che a livello globale ci si è dati nel corso degli anni, ci accorgiamo che sono stati tutti mancati. Dei 20 target fissati nel 2010 (Aichi targets, dal nome della prefettura giapponese dove si teneva la conferenza internazionale) nel Piano Strategico della Biodiversità di NNUU, soltanto 6 sono stati parzialmente conseguiti nel 2020. Ma c’è ancora di peggio. Il WWF ogni due anni pubblica il Living Planet Indexche tiene traccia di quasi 21000 popolazioni di mammiferi e uccelli, pesci e anfibi in tutto il mondo. Il rapporto 2020 mostra che rispetto al 1970, il 68% di questa fauna è scomparsa nel 2016. Si tratta di un’estinzione di massa legata principalmente alla distruzione di habitat naturali, molto condizionata dall’agricoltura, che peraltro rischia di favorire pandemie come il Covid19 originate da contatti tra umani e animali agevolando la trasmissione di virus in ambienti dove questo contatto non dovrebbe esserci. Il quadro è drammatico. L’America Latina ha effettivamente la situazione più grave: si calcola che la fauna selvatica sia diminuita d’oltre 90% per la pesante trasformazione di praterie e zone umide in suolo agricolo o zone urbane. Non va meglio in altre regioni. Probabilmente i dati sono migliori in Nord America ed Europa perché le distruzioni di massa ci sono state nei secoli passati. E questo riguarda anche gli oceani dove si sfrutta molto di più di quello che dovremmo. 

L’impatto umano sulla biodiversità 

Accenno solo alcuni aspetti che hanno effetti sulla vita di tutti i giorni, perché purtroppo non riusciamo ad accorgerci quando questi accadono lontano da noi o in tempi medi-lunghi. Oggi per l’inquinamento, il cambiamento climatico e le modifiche degli habitat iniziamo ad avvertire direttamente questi problemi. Rispetto alle acque interne, soltanto il 40% dei fiumi sono in buon stato ecologico (obbiettivo fissato dalla Direttiva quadro del 2000); i laghi, intorno al 20%. Nonostante ciò, continuiamo ad avere degli interventi molto pesanti sui corsi d’acqua: dragaggi, prelievi di materiali, costruzioni lungo i corsi d’acqua, dighe, distruzione della vegetazione spondale… tutto questo danneggia fortemente l’ecosistema fluviale facendo perdere quella capacità auto-depurativa che è fondamentale perché le acque arrivino pulite al mare, evitando di creare problemi di balneazione che si producono ogni estate. Si costruisce lungo i corsi d’acqua in situazioni pericolose. L’ISPRA calcolava nel 2016 che 8 milioni di Italiani vivevano in zone a pericolosità idraulica elevata o media. Le coste italiane negli ultimi 50 anni sono state invase da costruzioni e nella fascia di 1 km dalla linea di costa l’urbanizzazione è passata dal 10 al 20%: in Sicilia supera il 30%, in Sardegna il 25%, ma anche tutta la fascia adriatica presenta indici di alta urbanizzazione, per cui meno del 30% della costa è oggi libero da urbanizzazioni, quando negli anni 50 le percentuali erano più basse ed esisteva un paesaggio costiero fatto di macchia mediterranea, boschi, aree da riproduzione e ristoro per le specie viventi. Le foci dei fiumi non erano cementificate o comunque sfruttate dall’uomo. Un paesaggio costiero che oggi è inimmaginabile. La stessa estensione delle aree urbane non conosce limiti in Italia. Negli anni 50 i territori comunali urbanizzati al di sotto del 2%, erano oltre la metà (4600). Oggi i comuni con urbanizzazioni al disotto del 2% sono solo 1600 e rappresentano un terzo del territorio nazionale. Ci sono oltre mille comuni in Italia urbanizzati per oltre un quarto della propria superficie. Questo ha dei costi enormi dal punto di vista della gestione del suolo, dell’impermeabilizzazione del suolo e ci caratterizza per una pratica non è diffusa in altri paesi europei: il proliferare della città senza fine. Si tratta di crescita urbana diffusa, di una vera e propria polverizzazione. Non si capisce quale sia il margine della città, non viene tracciato. Le periferie della città finiscono per collegarsi alla città vicina. Questo livello di crescita caotico crea tra l’altro problemi di strutturazione o diffusione dei servizi, che hanno costi più alti. Tutte queste considerazioni negative potrebbero farsi anche per altri settori, per esempio, l’agroindustria. L’impatto dell’agricoltura industriale e degli allevamenti intensivi sulle falde acquifere, su suoli, sui cambiamenti climatici è drammatico. Sarebbe veramente necessario un cambio di indirizzo perché il dato che emerge da tutti gli studi condotti è che dobbiamo invertire radicalmente la tendenza. Ciò che si fa non è sostenibile e gli effetti si vedono già oggi, prima ancora che per le generazioni future. Il ritardo che abbiamo accumulato è tanto, forse anche troppo. C’è da domandarsi se possiamo mettere un argine al modello che abbiamo seguito. Perché il problema è il modello. Siamo di fronte al bisogno di un cambio complessivo di paradigma. Non possiamo illuderci di poter migliorare il modello di crescita lineare inseguito finora con piccoli accorgimenti. L’economia lineare deve lasciare il posto a quella circolare. 

Il modello inaccettabile e comunque assunto 

Non si può tacere sul fatto che il modello capitalistico, che è uscito vincitore dai conflitti freddi e caldi del XX secolo, ha delle pesanti responsabilità. È un modello insostenibile per i quasi otto miliardi di abitanti sul pianeta terra. Non è un discorso ideologico o politico. È una questione di numeri, di capacità di carico del pianeta, al di là di qualsiasi considerazione etica, che pure dovrebbe essere alla base delle strategie che andiamo ad individuare. Se volessimo garantire ad ogni abitante del pianeta avesse lo le stesse risorse che consuma un cittadino del Qatar, del Lussemburgo, degli Stati Uniti, paesi che consumano risorse aldilà di quelle che riescono a produrre, e quindi hanno una forte impronta ecologica, le risorse del pianeta non sarebbero sufficienti. L’overshoot day, cioè il momento dell’anno in cui iniziamo a consumare non gli interessi che ci ha dato il pianeta, le risorse riprodotte naturalmente, ma il capitale, cioè più di quanto è stato prodotto in termini di risorse naturali, arrivava nel 1970 a fine dicembre; nel 2021, è arrivato il 29 di luglio nonostante la pandemia. Così stiamo tagliando il ramo sul quale siamo seduti. Perciò dobbiamo pensare se troveremo il modo d’impedire, facendo a meno dell’etica, a miliardi di abitanti del pianeta di accedere alle stesse risorse che abbiamo, ciò che in parte già facciamo con conseguenze sociali, politiche e anche economiche, o se dobbiamo piuttosto fare i conti con il fatto che il pianeta è unico e le risorse sono quelle che sono. L’innovazione non può essere la scusa per pensare che la crescita sia infinita, questa deve portarci all’efficienza nei modelli di produzione e consumo e non diventare l’alibi per continuare come finora. 

L’evoluzione della Costituzione Italiana verso una Costituzione Ecologica, elementi comparativi con le esperienze latinoamericane. 

La riforma costituzionale per integrare la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi

Anna Bruno prende spunto dalla revisione costituzionale italiana del 9/6/2021 per proporre un’occasione di riflessione con le esperienze latinoamericane in tema di tutela ambientale. Il 9 giugno 2021 l’Assemblea del Senato della Repubblica ha approvato con 224 voti favorevoli e nessun voto contrario, un disegno di legge di revisione costituzionale recante modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione, in materia di tutela dell’ambiente. A seguito di tale modifica, il nuovo comma dell’art. 9 Cost. riconosce alla Repubblica il compito di tutelare l’ambiente, la biodiversità, gli ecosistemi, anche nei confronti delle generazioni future. Si è trattato di un intervento importante rispetto al riferimento, piuttosto ristretto, che l’art. 9 faceva in precedenza sull’ambiente, assimilandolo, di fatto, al (mero) paesaggio. Insieme all’art. 9 è stato modificato anche l’art. 41, per cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo tale da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Il legislatore ha dato così un’altra valenza all’ambiente: la spinta in questo senso non è stata solo dovuta a pressioni nazionali, ma è venuta soprattutto dall’Unione Europea, sia dall’Atto Unico (1986), che dal Trattato di Funzionamento (TDF), che, ancora, dalla Carta di Nizza. In questi due ultimi documenti era stato inserito il principio d’integrazione per il quale oltre a rappresentare un diritto fondamentale, l’ambiente era la matrice, il punto d’origine di tutte le politiche pubbliche. E questo è oggi il perno intorno al quale dovranno ruotare le prossime politiche pubbliche nazionali: dunque, non l’ambiente come qualcosa di esterno, ma – guardando alle esperienze latinoamericane – come qualcosa che appartiene a ciascuno di noi. Più recentemente è stato varato il Green Deal Europeo (12/2019) con il quale la Commissione Europea ha accelerato la tutela dell’ambiente. A livello dottrinale questo documento ha attribuito un forte impulso all’architettura europea in tema di tutela dell’ambiente, consolidandola e riconoscendole un valore obbiettivo e non soltanto soggettivo, facendo della protezione per le generazioni future la prospettiva di lungo periodo. Tuttavia, in Italia, nonostante la modifica costituzionale sia stata appoggiata da più forze politiche, è emersa una certa “timidezza” del legislatore rispetto alle decisioni prese, soprattutto con riguardo alla protezione della biodiversità o degli ecosistemi perché la revisione di giugno 2021 non sembra indicare chiaramente la direzione da seguire. Questo fa presumere che la tutela ambientale sarà rimessa nelle mani dei giudici, non solo nazionali ma anche europei, che rappresenteranno dei riferimenti importanti per lo sviluppo della materia in un’ottica di valutazioni e di bilanciamenti degli interessi coinvolti. 

Le ombre della riforma costituzionale

Tra le critiche principali alla recente revisione costituzionale c’è stata quella di aver visto in essa un’occasione mancata per tracciare una disciplina anche minima dei processi decisionali che in qualche modo si facesse carico e regolasse le istanze di trasparenza, di partecipazione, di collaborazione tra le valutazioni scientifiche e le scelte della politica, decisamente centrali in materia ecologica e ambientale. Al contempo è stato evidenziato come il legislatore non si sia pronunciato nella predisposizione di strumenti efficaci per il governo delle politiche ambientali, quasi a sottolineare una (triste) costante negativa nell’esperienza istituzionale italiana. E ancora, non è stato operato alcun rinvio ad altri principi costituzionali di particolare rilevanza e attinenza col tema, per esempio, il dovere di solidarietà già presente nell’art. 2 della Costituzione e spesso richiamato in decisioni concernenti la materia ambientale (Sul punto, tra gli Altri, L. Cassetti, Salute e ambiente come limiti “prioritari” alla libertà di iniziativa economica, Federalismi.it, n.16/2021;  M. Cecchetti, Osservazioni e ipotesi per un intervento di revisione dell’art. 9 della Costituzione avente ad oggetto l’introduzione di una disciplina essenziale della tutela dell’ambiente tra i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. Audizione presso la 1ª Commissione permanente del Senato della Repubblica “Affari costituzionali, affari della Presidenza del Consiglio e dell’Interno, ordinamento generale dello Stato e della Pubblica Amministrazione”, in Diritto pubblico europeo Rassegna online, n.1/2020). 

Spunti di riflessione sull’approccio europeo e latino-americano alle tematiche ambientali

La legislazione ambientale latino-americana si è sviluppata con la nascita degli Stati nazione nel XIX secolo. In seguito al processo di industrializzazione si è sentita l’esigenza di tutelare l’ambiente davanti alle dinamiche sociali che avrebbero inciso sia sulla salute che sul lavoro. Già dai primi anni del XX secolo, l’ambiente ecologicamente equilibrato fu riconosciuto come diritto fondamentale dell’uomo e anche l’educazione ambientale ha rappresentato uno strumento indispensabile per la promozione dell’ambiente stesso. Oltre a quella della Bolivia, anche la costituzione dell’Ecuador è diventata un riferimento in questo ambito, pur mantenendo alcune differenze dovute al contesto. Senza dubbio, ambedue gli Stati hanno rappresentato una svolta determinante per l’inquadramento della problematica ambientale, perché hanno adottato un modello eco-centrico che ha visto la costituzionalizzazione dei diritti della natura e un approccio ben differente da quello europeo (determinato, chiaramente, dal percorso storico e culturale del Paese). Si deve dunque all’Ecuador e alla Bolivia una percezione della tutela ambientale di gran lunga più sensibile, più attenta a quelle che sono le tematiche proprie di questa problematica. Per cui si è sviluppato in quei contesti un’etica della terra strettamente collegata al concetto di “buen vivir”, indice di uno sviluppo dei diritti fondamentali che va di pari passo con l’ambiente. La tutela ambientale parte dall’uomo, che mentre si prende cura della madre terra, sviluppa così i diritti che ruotano intorno a quest’ultima. 

Rispetto agli Stati latinoamericani, in Italia l’inserimento di nuove clausole costituzionali ha tenuto conto anche delle direttive europee. È opportuno ricordare, infatti, che quando l’Europa ha promosso politiche pubbliche indirizzate ai vari livelli di governo, lo ha fatto solitamente attraverso fonti di soft-law in virtù del principio di indipendenza dei due ordinamenti e della separazione delle competenze statali, regionali o locali. Gli Stati sono stati poi liberi di recepire o meno quegli atti, così come in futuro saranno liberi di sviluppare modelli diversi di politiche pubbliche in funzione del proprio territorio e delle esigenze sociali, economiche, geografiche, … 

Una macro-differenza tra l’approccio europeo e quello latinoamericano alle tematiche ambientali si rinviene nell’approccio ottativo del primo, diverso da quello prescrittivo che invece vige oltreoceano. Quello prescrittivo è tipico degli Stati del sud America dove le disposizioni anche in materia ambientale sono a contenuto di comando, di controllo, di correzione, di limitazione delle libertà della società e del mercato con l’obiettivo di attribuire nuovi diritti conformi alla natura e di limitare le scelte governative concepite per la tutela del mercato. In Europa, dove vige un modello ottativo, si sollecitano gli Stati a comportarsi in un certo modo mentre negli Stati sud americani, la questione si pone in modo diverso anche rispetto alle garanzie relative alla partecipazione dei cittadini. Non a caso, la dottrina segnala tra i limiti della riforma costituzionale italiana proprio la mancanza di disposizioni volte a garantire la trasparenza nelle varie fasi della tutela ambientale ed ecologica. Questo aspetto è, invece, presente nelle costituzioni latinoamericane: sia la Bolivia che l’Ecuador hanno proceduto al riconoscimento costituzionale di diritti della natura, per cui quest’ultima assurge a soggetto giuridico al pari dell’essere umano che opera attraverso dei sostituti istituzionali come quello della “Defensoria della Madre Tierra”. Emerge chiaramente come l’Europa, e in particolare l’Italia, muova da premesse culturali e storiche differenti, ma il lato forte della prospettiva latinoamericana è proprio l’impostazione prescrittiva, in cui tutti sono obbligati a rispettare la natura, perché la natura è un soggetto da tutelare alla pari di ciascuno di noi. Così, non siamo soltanto portatori dei nostri diritti, ma dei diritti della natura, che non è al di fuori di noi, ma dentro, perché noi stessi siamo nella natura. Credo che per questa ragione le questioni della tutela ambientale saranno sottoposte con frequenza ai giudizi nazionali e anche europei, per soluzioni più generali. Con l’emergenza pandemica questi aspetti diverranno sempre più importanti per sensibilizzare l’opinione pubblica, non solo dei cittadini ma anche dei decisori politici. (Sul punto, A.S.Bruno, L. Cassetti, La tutela dell’ambiente tra incertezze globali e valore prescrittivo delle Costituzioni nazionali, in Federalismi.it, 1/2018).

I diritti dell’uomo e dell’ambiente, della natura, sono complementari e non antagonisti

Matteo Zamboni organizza la sua presentazione intorno a 4 aspetti relativi alla problematica: a) la sentenza del 2016 della Corte Inter-americana di Diritti dell’Uomo nel processo Pueblos Kaliña y Lokonola contro Suriname, con la quale la Corte ha indagato il rapporto tra diritti dell’uomo e diritti e cultura delle popolazioni indigene; b) il concetto di cultura tradizionale delle popolazioni indigene c) la concezione dei diritti delle popolazioni indigene, quali diritti comunitari, collettivi, informali e immateriali; d) il confronto con la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Premettendo che la conoscenza della cultura latinoamericana è limitata, riconosce il fatto che se le legislazioni più avanzate in termini di protezione dell’ambiente sono latinoamericane ciò è dovuto alla presenza di una larga popolazione indigena avente una cultura e un rapporto diverso con la natura. 

In riferimento alla sentenza 2016 della Corte Inter-americana nel caso Pueblos Kaliña y Lokonola, due comunità indigene che vivono nei territori oggi divisi tra Venezuela, Brasile, Guyana, Guyana Francese e Suriname. Nel 2006, 8 comunità vivendo lungo la parte bassa del fiume Marowijne, presentano una petizione alla Commissione Inter-americana domandando che il Suriname dia riconoscimento alla loro cultura e al loro diritto di godere delle terre ancestrali. Il sistema interamericano prevede due fasi: i popoli presentano un ricorso alla Commissione che emette delle raccomandazioni di direzione allo Stato; se questo non le adotta, il caso viene portato dalla Commissione alla Corte. Il sistema europeo funzionava allo stesso modo fino al 1998. In questo caso, il Suriname non eseguì le raccomandazioni e il caso andò alla Corte, che nel 2016 emette una sentenza che per molti versi è storica. In particolare, i popoli richiedono il godimento dei frutti delle loro terre ancestrali, che in parte erano state vendute o date in concessione a terzi, in parte si era aperta una miniera di bauxite, ma quello che più interessa il dibattito di oggi è che erano state istituite tre riserve naturali.  Aspetto cruciale. In una di queste le comunità non potevano entrare, nelle altre c’erano limitazioni alla caccia e alla pesca, cioè al godimento del frutto di queste terre. Il problema non è da poco perché da 160.000 ettari di terre ancestrali, 60.000 erano occupati dalle riserve, cioè più del 45%. Cosa dice la Corte sul diritto di questi popoli a recuperare le terre anche se trasformate in riserva naturale? In primo luogo, riconosce che c’è un rapporto spirituale tra questi popoli e le terre dove hanno abitato per epoche millenarie. Tale rapporto crea il diritto di reclamare le terre a prescindere dall’assenza di titolo formale di proprietà. Questo grazie all’interpretazione del diritto di proprietà e al di là del diritto individuale, la Corte riconosce che non tutto il mondo ha la stessa idea di proprietà. E comunque, qualsiasi sia la forma di proprietà, deve essere tutelata dalla stessa Corte. Inoltre, sul concetto di riserva naturale, essa considera che non si tratta solo della preservazione di piante, specie animali, etc. ma dello spazio sociale e culturale del quale le comunità fanno parte. Inoltre, riconosce che le pratiche ancestrali delle popolazioni indigene contribuiscono alla tutela dell’ambiente e della biodiversità. Pertanto, i diritti delle comunità devono essere considerati come complementari e non avversari rispetto alla tutela dell’ambiente. Per arrivare a questa conclusione, la Corte fa affidamento all’intervento di un terzo, la Commissione delle NNUU sui diritti dei popoli indigeni, che compare come parte nel giudizio e presenta una relazione a sostegno di questi punti che vengono poi incorporati nel rapporto pubblicato l’anno successivo dal Special Rapporteur sui diritti dei popoli indigeni, diventando un atto ufficiale. Questo spiega che i diritti dei popoli indigeni devono essere considerati complementari rispetto alla tutela dell’ambiente e alla protezione della biodiversità. Ancora più interessante, l’anno dopo, lo stesso argomento viene usato dallo Special Rapporteur sui diritti e la tutela dell’ambiente. E dal 2017 in questo rapporto c’è un inciso sul fatto che dalle pratiche ancestrali si deva imparare per dare all’ambiente e alla biodiversità una tutela effettiva. L’ultimo rapporto del 2019 rende esplicita l’idea che la creazione di riserve naturali deve trovare approvazione da parte delle popolazioni indigene che ne abitano. E questo perché l’evidenza mostra che delle foreste affidate alle popolazioni ancestrali ne beneficia tutta la comunità internazionale: il tasso di deforestazione e di emissione è più basso, c’è maggior cura e investimenti nella biodiversità. La sentenza del 2016 costituisce un evento fondamentale riguardo la complementarità tra diritti umani e dell’ambiente. In più la Corte si riferisce costantemente alla Convenzione sulla Biodiversità (1992, Rio di Janeiro), che all’art. 8 prevede l’obbligo degli Stati di tutelare, preservare e conservare le pratiche tradizionali delle popolazioni indigene per la conservazione dell’ambiente. In fondo non è esagerato affermare che tale Convenzione è anche una Convenzione sui diritti umani e non solo sull’ambiente. Un argomento un pò formalista, da internazionalista, le NNUU pubblicano la serie dei Trattati di NNUU divisa in capitoli. Il 4 si riferisce ai diritti umani, dal 1948 sui crimini e sui genocidi; nel capitolo 27 sui diritti dell’ambiente, c’è la Convenzione del 92. Sarebbe utile se le NNUU cambiassero la presentazione e facessero un unico capitolo sui diritti umani e dell’ambiente perché le due questioni non sono in realtà separabili. 

Le pratiche e culture ancestrali: lezioni per la tutela dell’ambiente e della biodiversità

Cosa sono le pratiche ancestrali, le culture tradizionali dalle quali apprendere per tutelare l’ambiente in modo più efficace. Queste conoscenze sono definite come informali, tramandate oralmente attraverso le generazioni e che pur concernendo pratiche molto antiche hanno degli aspetti molto innovativi e dunque, sono precetti dai quali imparare nuovi modi per raggiungere obiettivi che la comunità internazionale si è data. Tra le varie definizioni sulla conoscenza tradizionale, quella del Working Group sull’Art. 8 della Convenzione del 92 che la definisce come la conoscenza che deriva dalla relazione tra l’uomo e la natura, e dalla responsabilità dell’uomo nei confronti di tutti gli esseri viventi e dell’ambiente (includendo fiumi, spiagge, mari, etc.). In realtà già prima della sentenza 2016 era stato suggerito che possiamo apprendere da queste pratiche tradizionali delle popolazioni indigene nuovi metodi per tutelare la biodiversità, per esempio nel 2015 dal Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico. Tuttavia, nel 2015, quando si è concluso l’accordo di Parigi, le popolazioni indigene hanno dato un apporto molto limitato. Ed è un dato di fatto che nell’accordo di Parigi quelle popolazioni sono citate solo in senso negativo, cioè come portatrici di un bisogno di essere protette dal cambiamento climatico ed impedire la loro sparizione e non nel senso proattivo come previsto già nella Convenzione del 92.  Perché questo è importante. Si è vero quel che dice l’articolo 7 dell’Accordo di Parigi sulla vulnerabilità e il rischio di sparizione delle popolazioni indigene se la biodiversità non viene tutelata, l’approccio può essere più positivo. Queste popolazioni rappresentano meno del 5% di quella mondiale e pure controllano le maggiori riserve di biodiversità del pianeta. Dunque, si può fare un passo successivo: non conta solo la tutela dei diritti delle comunità indigene di fronte ai cambiamenti nell’ambiente, ma in sé la protezione del loro diritti ha delle ripercussioni positive sull’ambiente, come afferma lo Special Rapporteur nel dicembre di 2019, perché esistono le prove che là dove la conservazione è affidata alle cure degli abitanti ancestrali, il livello di preservazione è migliore. Quindi la tutela dei diritti delle popolazioni indigeni è importante. 

Qual è l’idea dei diritti delle popolazioni indigene? E molto diversa dalla nostra. E un’idea in cui i diritti sono comuni e collettivi; sono informali e spesso immateriali. Questa analisi va fatta alla luce della giurisprudenza della Corte Interamericana dei Diritti dell’Uomo perché è la più efficace nella tutela delle popolazioni indigene, largamente presente nei paesi latinoamericani. Nel 2001 questa Corte ha riconosciuto che il diritto di proprietà di cui all’art. 21 della Convenzione sui diritti dell’uomo non tutela solo la proprietà privata individuale di modello occidentale, ma tutela ogni tipo di proprietà in qualsiasi modo sia intesa dalla cultura. Dunque, tutela il diritto delle comunità indigene di abitare sulle terre ancestrali e di goderne i frutti. In questo senso, l’idea di proprietà che risulta dalle sentenze di quella Corte su casi portati da comunità indigene e tribali è un’idea di proprietà comunitaria nella quale la proprietà non è legata ad un’idea di possesso né tanto meno di proprietà individuale, ma è collegata ad un rapporto spirituale dell’intera comunità con i territori sui quali la comunità ha sempre abitato. In questo senso, si compenetrano popolazione e territorio e insieme formano la comunità. Questo è il diritto che questi casi portano a tutelare. Ovviamente in quasi tutti i casi le comunità indigene non hanno un titolo di proprietà, come in occidente. La Corte dice allora: non è necessario il titolo, la prova del possesso della comunità ad abitare le terre è data dal rapporto spirituale che le comunità hanno con queste terre. Nel caso citato in Suriname, l’estensione del territorio venne ricostituita dalla delimitazione dei luoghi sacri che le comunità avevano sul territorio. In questo senso, non si tratta solo di diritti comuni e informali, ma di diritti immateriali perché non c’è nessun titolo formale e il concetto di proprietà si lega al concetto di cultura. Tutte le sentenze di quella Corte non usano soltanto l’art. 21 sul diritto alla proprietà, ma usano anche il diritto allo sviluppo culturale, art. 25 della Convenzione Interamericana che poi è un diritto che si trova in altre convenzioni sulla protezione delle popolazioni indigene, per esempio, nella Convenzione 169 (1989) dell’ILO sui Popoli Indigeni e Tribali in Stati Indipendenti, oppure nella Dichiarazione delle NNUU del 2007 sui Diritti dei Popoli Indigeni.  È vero che quest’ultima è soft-law, cioè non-vincolante. Ma nel diritto internazionale, la distinzione tra vincolante e non-vincolante è sempre più sfumata. Il caso di Suriname lo dimostra, la Corte utilizza la Convenzione del 2007 per interpretare la Convenzione Interamericana. Ora la Convenzione del 2007 non è vincolante, quella Interamericana sui diritti dell’uomo è vincolante, è evidente che se l’interpretazione della seconda dipende dalle previsioni della prima, anche questa assume un certo grado di forza effettiva di trattato internazionale. In conclusione, parlare del rapporto spirituale tra le terre ancestrali e le comunità indigene, che si compenetra in un unico soggetto, nel diritto internazionale dei diritti umani viene trattato come un’interpretazione evolutiva del diritto di proprietà e attraverso l’interpretazione dei diritti culturali, con il rispetto delle tradizioni culturali delle diverse popolazioni. Ovviamente con questo non voglio dire che questo è l’unico modo di parlare del rapporto delle popolazioni indigene con il diritto dell’ambiente. Non possiamo nasconderci che le popolazioni indigene sono tra i soggetti più vulnerabili al cambiamento climatico e alla scomparsa della biodiversità. Ma si deve uscire dall’idea che queste popolazioni siano dei soggetti minori o minorati, vulnerabili e che dobbiamo tutelare: bisogna passare ad un concetto nel quale noi possiamo addirittura imparare da loro, non solo per quanto riguarda la conservazione dell’ambiente ma rispetto all’idea comunitaria dei diritti. Rispetto al concetto di riserva naturale la Corte Interamericana afferma che non sono posti chiusi dove non entra nessuno o soltanto i turisti per visitare ambienti totalmente artificiali, ma luoghi di riconoscimento del rapporto tra le diverse popolazioni – che comprendono quelle mondiali – e le loro terre. Per questo, il rapporto di prova, creativo, appoggiato in fondo alla Convenzione del 92, è in realtà l’unico modo di tutelare le popolazioni indigene. Se vengono considerate come soggetti minori, da proteggere, non riusciranno mai a far passare le loro istanze sulla nostra incredibile capacità di procrastinare il diritto e le nostre soprastrutture giuridiche. Purtroppo, questo si vede nella giurisprudenza europea dei diritti dell’uomo. Non è che in Europa non si abbiano popolazioni indigene e che queste non abbiano pretese nei confronti della civilizzazione occidentale. Abbiamo molti casi, soprattutto in Scandinavia, contro la Danimarca, la Finlandia, la Svezia che sono simili a quello del Suriname, riguardano comunità che hanno sempre vissuto in quelle terre e sono dovute andare via per la creazione di riserve naturali, perché sono usate a fini economici. Ebbene, ci sono tanti casi, soprattutto nel primo decennio degli anni 2000, e in nessuno di questi la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato la violazione. Questo perché l’interpretazione del diritto di proprietà (art. 1 della Convenzione) dato da questa Corte non è così avanti come l’interpretazione della Corte Interamericana, ma soprattutto perché in tutti questi casi la Corte Europea ha sempre trovato un formalismo, una formalità, una procedura per dire: avete lasciato le vostre terre, avete firmato un patto di compensazione, di risarcimento, per questo in Europa dobbiamo uscire da quest’idea di protezione, tutela delle riserve come posti dove non entra nessuno e andare verso un’idea partecipativa di riserva, un concetto di riserva non solo da proteggere ma da imparare dalle popolazioni che esistono nei territori. La biodiversità nella Convenzione del 92 non è soltanto un’idea di conservazione di animali e piante, ma è soprattutto stabilire il valore della diversità all’interno di tutte le specie, includendo la specie umana. 

Dagli antagonisti del capitalismo alla creazione d’un ombrello unico di diritti per uomo e natura

Cinzia Scaffidi rispondendo a Claudio Mazzoccoli su chi è l’antagonista del capitale, soggetto a replica infinita, come i virus, dice che l’antagonista è la costruzione di progetti basati sull’idea di cura e dunque di relazione, anziché di profitto. Il profitto, infatti, funziona molto meglio senza relazioni. L’idea dell’accumulo e del possesso forse è iniziata con l’agricoltura e con la sedentarizzazione, che ha necessariamente portato a preoccuparsi del futuro, a proteggersi dall’imprevisto, un’idea che non aveva un ruolo importante nel mondo non agricolo. 

Oggi abbiamo pezzi di mondo che sono indeboliti. Il fatto che ci siano paesi che si autoproclamano “i G20” è un atto di protervia istituzionale che non guarda al come sono diventati grandi. Mentre i “Last 20s”, ovvero i paesi con le economie più povere del mondo, si domandano se siano poveri o impoveriti. Ma se sono impoveriti, ci deve essere qualcuno che si è arricchito.  I G20 non si sono arricchiti con le proprie risorse ma con fatti come lo schiavismo, il colonialismo di ieri e di oggi. Il capitalismo non ha il pensiero per il domani, scriveva Laura Conti negli anni Settanta, si occupa del presente e dell’immediato. Questa è una debolezza manifesta. L’antagonismo al capitalismo non può essere che la cura delle relazioni, che invece non compaiono nella visione orientata al mercato. E vedi caso l’antagonista del capitalismo sta in cose di cui si sono sempre occupate le donne, intese non come individui, ma come visione femminile, elemento che è stato sempre marginalizzato. Rispondendo a Luigi Colosimo, è d’accordo sul fatto che al riduzionismo deve opporsi un approccio olistico e complesso che sta nell’idea di cura, di relazioni, di tessuto, che il capitalismo ha cercato di eliminare anche perché il riduzionismo dal punto di vista del fare ricerca, scuola, economia orientate al mercato, è più veloce, dunque più conveniente. 

Rispondendo a S.Thirion che domandava perché la natura deve avere uno statuto diverso dall’umano e che il diritto alla vita deve essere l’ombrello per tutti i diritti, Cinzia Scaffidi dice che andare nella natura è un’idea molto urbana, figlia dell’industria e dell’urbanizzazione che ne è conseguita. Quest’idea si ripete in tante situazioni, continuiamo a ripetere la cacciata dall’Eden anche con decisioni giuridiche. Per esempio, il primo brevetto sul vivente negli anni 80 scrive, nella sentenza, che non si deve più distinguere tra vivente e non vivente, ma tra ciò che nel vivente è stato creato dalla natura e ciò che è stato creato dall’uomo. La conseguenza è che ciò che è stato creato dall’uomo si può brevettare, aprendo una voragine nel nostro sentirci ed essere natura. È uno strappo che va ricucito con mani piccole e sapienti, con le voci dei più giovani, che dicono ai politici o fate così o non vi diamo tregua. 

Questa energia, quella dei tanti ragazzi che stanno entrando nelle questioni ambientali e dunque politiche è vitale perché chi ha più esperienza fa la lista dei fallimenti e non di energia non se ne ritrova più. Le voci delle generazioni future vanno ascoltate e questo è possibile soltanto in un assetto di comunità, altrimenti per un industriale “squalo”, come lo chiamava C. Mazzoccoli, non sono importanti, tanto fra 50 anni lui non ci sarà più. Dobbiamo ricucire tutto questo con pazienza, guardando alle esperienze che esistono, come il gruppo di 2000 associazioni che si chiama “La società della cura”,  o una piccola task force che si chiama «Natura e Lavoro», che sta ragionando e pubblicando e creando rete per dimostrare che non si deve scegliere tra sostenibilità e occupazione. Anzi, curando l’ambiente, si crea lavoro. 

Il rapporto tra ecologia ed economia chiede innovazione, trasparenza e partecipazione 

Anna Bruno, rispondendo alle domande, ricorda l’origine economica dell’UE che tuttora pervade le decisioni, anche in campo di tutela ambientale. La pandemia ha senza dubbio messo sul tappeto gli aspetti su cui intervenire, anche con il supporto del Green Deal Europeo, ritenuto per molti versi “sovversivo” nel porre lo sviluppo ecologico al centro delle decisioni. Questo è mancato nell’ultima revisione della Costituzione italiana che non ha fatto espresso riferimento allo sviluppo sostenibile, utile a ripensare il rapporto tra ecologia ed economia. La divisione tra diritti della natura e diritti dell’uomo risponde ad una (con)figurazione storico-culturale diversa da quella che si è sviluppata oltre-oceano. Nuove esigenze si faranno avanti e la riforma costituzionale, anche con i suoi limiti in termini di partecipazione e trasparenza, aprirà spiragli determinanti nella tutela ambientale … lasciando probabilmente al potere giudiziario il compito di indicare possibili soluzioni innovative.

La trasformazione deve trovare ispirazione e speranza in esperienze già esistenti

Dante Caserta sostiene che il modello capitalistico mostra i suoi limiti dalla prospettiva della sostenibilità, però ha anche reso ricca una parte della popolazione (che avendo il potere non lascia spazio ad altri soggetti). Perciò non si devono perdere di vista gli aspetti positivi. Le trasformazioni da farsi, soprattutto rispetto al cambiamento climatico, trovano ispirazioni in tante esperienze reali che sono più avanzate delle decisioni politiche. La spinta che viene dall’UE va nella direzione giusta e obbliga i paesi membri a fare delle scelte, volenti o nolenti. 

Il diritto a ricevere informazioni, aspetto chiave dei contenziosi sulla protezione dell’ambiente

Matteo Zamboni ricorda che una definizione delle culture ancestrali è quella che ha una visione olistica e pluralistica, autonoma, che privilegia l’autosufficienza sull’accumulazione, l’autoproduzione sul consumo.  Concorda con S. Thirion sul fatto che non si deve soltanto codificare le esperienze delle popolazioni indigene, ma trarre degli insegnamenti. Ma bisogna riconoscere nel modello europeo l’esperienza storica di tutela dell’ambiente. Ciò non significa che la cultura giuridica occidentale permette di risolvere ogni problema, perché si devono ascoltare altre culture. La giurisprudenza della Corte Europea di Diritti dell’Uomo è più arretrata di quelle Inter-americana riguardo la tutela delle popolazioni indigene, non tanto  quanto riguarda il diritto dell’ambiente, ma soprattutto il diritto a ricevere informazioni, che sarà cruciale nei contenziosi futuri. L’art 10 della Convenzione Europea, il diritto alla manifestazione del pensiero è anche quello di ricevere informazioni. Dagli anni 90 la società civile è andata alla Corte dicendo: lo stato non ci dà informazioni sull’impatto ambientale di un progetto industriale. Nel 98, nella sentenza Guerra contro Italia, la Corte interpreta tale diritto in modo negativo e restrittivo argomentando che lo Stato non è tenuto a dare l’informazione ma soltanto ad impedire che qualche altro le fornisca. L’approccio è cambiato negli ultimi anni. Nel 2016 la Corte dice che lo Stato deve dare informazione, è un diritto positivo, in determinate circostanze, per esempio, quando un giudice ordina ciò. Nel 2019 inoltre afferma che lo Stato ha l’obbligo di fornire informazioni sull’impatto ambientale, ogni qual volta c’è un interesse generale forte. Nel 2021, in una decisione contro la Francia, si configura un diritto generale d’accesso all’informazione relativa all’impatto sulla salute dei progetti industriali. Nella sentenza sull’Ilva di Taranto (24/1/2019), la Corte si è concentrata sul fatto che lo Stato non ha mai fornito alle famiglie che vivevano intorno all’Ilva informazioni affidabili e precise sull’impatto ambientale e sulla salute sulla produzione d’acciaio. Questo è l’approccio da tenere: diritti umani e dell’ambiente sono sempre complementari. La natura non può portare una causa contro un diritto individuale. Piuttosto portando il diritto individuale a manifestare il proprio pensiero, a ricevere informazione, si porta avanti le cause ambientali. Il nuovo filone dei contenziosi più che la sostanza delle questioni sarà il diritto delle popolazioni ad avere informazioni precise e accurate sull’impatto ambientale e alla salute di tutti e processi e produzioni industriali. 

La portata cittadina di una nuova Strategia sulla Biodiversità 2030

Per Dante Caserta, ci troviamo di fronte ad una serie di obiettivi problematici da raggiungere per il fatto che l’emergenza planetaria richiede scelte ambiziose. Una Strategia 2030 non deve dare soltanto una vaga panoramica, ma obbiettivi puntuali e anche quantitativi. Arrestare la perdita degli habitat naturali, dimezzare l’impatto ecologico dei processi di produzione e consumo e fermare l’estinzione delle specie viventi. Il WWF ha sviluppato una proposta sul New Deal for the Nature and People sulla base del Green Deal che pone una serie di obbiettivi nei quali i cittadini possono avere dei ruoli diretti o indiretti. Il cittadino concretamente sceglie votando partiti o soggetti che fanno propri i temi che interessano. Spesso i sondaggi riflettono interesse per tematiche che non si riflettono nel voto dei cittadini che non scelgono partiti o soggetti portatori di questi temi. Il cittadino è anche consumatore e le scelte su prodotti e modelli di approvvigionamento non sono indifferenti. Se c’è la convinzione dell’importanza della biodiversità, che fornisce i servizi ecosistemici che permettono la continuità della vita, si deve pensare alla sua tutela reale. I parchi, per esempio, che consentono la tutela di specie e habitat rappresentano il 18% del territorio e l’obbiettivo dovrebbe essere almeno il 30%. Dal punto di vista marino, siamo a meno del 10% quando l’obbiettivo dovrebbe essere anch’esso del 30%. Protezione non solo statica, ma di gestione, perché conservare non è più sufficiente e si devono restaurare habitat degradati. Vanno superate le contraddizioni insite nel dibattito: non si può dire di volere contrastare i cambiamenti climatici senza eliminare le tantissime sovvenzioni ai combustibili fossili: cifre enormi che vanno invece indirizzate verso il risparmio energetico, la messa in efficienza dei sistemi di produzione e consumo e le fonti rinnovabili. Un elemento sul quale il WWF ha contribuito è quello di avere un Ministero della Transizione Ecologica, per gestire la transizione del sistema produttivo, facendo in modo che ci sia una spinta concreta del governo: anche in questo caso, però, è necessario dare poi concretezza ai buoni propositi. Dal punto di vista della partecipazione, i cittadini devono poter accedere alle informazioni ambientali in quanto molti impatti non si conoscono o vengono trascurati. Poi, fare in modo che i modelli sperimentali, che vanno nella direzione giusta, non siano marginalizzati. E questo in diversi settori, per esempio la mobilità. Le città sono sempre di più a misura d’auto e alcuni politici mettono in discussione aspetti acquisiti, come le piste ciclabili che sarebbero a loro dire responsabili di intralcio al traffico veicolare! Due aspetti ancora. Uno, l’agire in fretta: come indica la ricerca scientifica, il tempo che rimane è sempre più limitato, non si può più procrastinare, accontentandosi di piccoli passi avanti. Due, indirizzare le risorse pubbliche verso necessità pubbliche. Per esempio, sul PNRR, il 37% degli investimenti devono andare sul cambiamento climatico e la difesa della biodiversità. Ma si deve fare in modo che il restante 63% non vada in direzione opposta. La responsabilità dei cittadini è quella di chiedere una vita in dignità per tutti, incluso le altre specie, le generazioni future e chi si trova in condizioni vulnerabili per via di modelli di sfruttamento che hanno permesso all’occidente di svilupparsi.

Quale impegno cittadino per una Costituzione Ecologica? Il principio di sussidiarietà orizzontale come strumento per una tutela ambientale bottom up

Per Anna Bruno, l’art 118,4 sulla sussidiarietà orizzontale della Costituzione Italiana offre ai cittadini uno strumento per lo svolgimento di attività d’interesse generale. Per i cittadini, farsi carico come singoli o associativi dell’interesse generale ha avuto un impatto fondamentale nella tutela ambientale: si è assistito ad una diffusione di Regolamenti e Patti di Collaborazione (www.labsus.org) con cui sono stati disciplinati i rapporti tra cittadini e amministrazione per la cura dei beni comuni, tra questi anche l’ambiente. I contributi dei giudici sono stati fondamentali per allargare le maglie del principio di sussidiarietà orizzontale. Per esempio, la Corte Costituzionale nella sentenza n. 131 del 2020 è intervenuta per sottolineare come la tutela dell’interesse generale debba essere inteso in una prospettiva alternativa a quella “del profitto e del mercato”. In questa prospettiva, le attività di gestione dell’interesse generale in cui si sviluppa l’iniziativa autonoma dei soggetti privati saranno quelle concernenti prestazioni di beni e di servizi erogate per spirito solidale al fine di soddisfare bisogni sociali della collettività o del singolo (si pensi agli interventi di rigenerazione urbana, di cura dell’ambiente e del verde urbano, …). Il principio di sussidiarietà orizzontale, quindi, apre alla possibilità che la concertazione tra pubbliche amministrazioni e cittadini consenta una realizzazione delle politiche di governo del territorio, non più legate alla mera erogazione dei servizi sociali, ma fondate su una forma di corresponsabilità dei singoli e delle formazioni sociali con l’amministrazione: la Corte ha posto al centro dell’attenzione il cittadino e, dunque, il pluralismo sociale già riconosciuto dall’art. 2 Cost. e realizzato da quelle stesse formazioni sociali che costituiscono una forma di esercizio della stessa sovranità popolare. Molti dei Patti di Collaborazione risultano utili per far fronte a situazioni di degrado e la cura dei beni comuni permette che l’interesse generale prenda forma grazie ad un’attuazione efficace dell’art. 118,4 Cost. La rigenerazione e la riqualificazione degli spazi pubblici, in una prospettiva di tutela ambientale, nasce anche a seguito delle iniziative europee e della tendenza a riqualificare l’esistente piuttosto che ad intensificare il consumo del suolo. Ad esempio, molti degli interventi di riqualificazione di sentieri di montagna, di aree fluviali, di aree interne etc. si sono sviluppati grazie ai programmi europei che richiedono, però, anche un certo coordinamento delle politiche pubbliche in una prospettiva multilevel.

Il principio d’accesso all’informazione deve portare a rinforzare la partecipazione effettiva della società civile alla decisione e alla formazione della giurisprudenza

Secondo Matteo Zamboni si sta arrivando progressivamente ad un principio generale sul diritto all’informazione, che significa che lo Stato ha il dovere di fornire informazioni sull’impatto ambientale di ogni progetto industriale. L’informazione deve poi portare alla effettiva partecipazione della società civile nella concezione di tali opere, attraverso dibattiti pubblici. Come arrivare a concretizzare il principio? Nel 2016 è stato approvato in Italia, l’accesso pubblico generalizzato (FOIA)ed è indispensabile che le associazioni – che hanno più risorse intellettuali e operative – chiedano informazioni sui progetti alle amministrazioni. Nel caso dell’Ilva, sebbene ci siano 200 famiglie ricorrenti, dietro c’è un’associazione, senza la quale il ricorso sarebbe stato impossibile. Tutte le associazioni dovrebbero ingaggiare un dibattito pubblico con le giurisdizioni nazionali e internazionali, soprattutto le NNUU, che sono avanti nelle procedure speciali sulla tutela dell’ambiente ma indietro in quanto riguarda i comitati (per i diritti dell’uomo). Si potrebbe portare davanti a loro questioni ambientali per costringerli a prendere posizione, come pure davanti al Consiglio delle NNUU sui Diritti Umani nell’ambito della revisione periodica. Le associazioni possono pure portare cause alla Corte Europea e fare interventi di terzi, aiutando la Corte a decidere. Si può fare questo anche di fronte alle corti nazionali. Un provvedimento della nuova Presidente Marta Cartabia ha finalmente regolarizzato l’intervento di terzi di fronte alla Corte Costituzionale, cosa che sempre è esistita senza mai essere disciplinata, stabilendo le forme attraverso le quali le associazioni possono partecipare al contenzioso costituzionale. Un obbiettivo realistico è fare stabilire alla Corte Costituzionale, alla Corte Europea, etc. che non c’è solo un diritto d’informazione della società civile, dei cittadini, ma che questo diritto dev’essere completato da un diritto di effettiva partecipazione alle decisioni che hanno un impatto sulla tutela della biodiversità, sull’ambiente.

Luigi De Giacomo ricorda nel T.U.E.L. (testo unico degli enti locali) la parte I, art.3, punto 5, ancor più nettamente dell’Art. 118 Cost., così cita “I comuni e le province svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali”. Passaggio assai rilevante perché riguarda le istituzioni di prossimità e le comunità territoriali, sconosciuto dalla gran parte degli amministratori locali.

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