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A nome del dipartimento giuridico di Generazioni Future, pubblichiamo uno stralcio dell’intervento di Alessandra Camaiani all’importante convegno tenutosi lo scorso 8 febbraio a Palermo, organizzato dalla Rete per il NO alle autonomie differenziate, Generazioni Future Regione Sicilia e dalla CGIL sez. regionale siciliana, confermando la posizione di avversione della Cooperativa a questo disegno di legge, praticata secondo le rime che da sempre ne connotano l’operato, e cioè come risultato di un accurato processo di valutazione e di studio della materia, che si accompagna al rifiuto di prese di posizione acritiche e ideologiche. “…il punto nodale della questione è che la riforma si inscrive in un sistema ben più ampio di erosione dell’effettività della democrazia; un processo che non ha coloratura politica, avendo avuto attori trasversalmente appartenenti alla destra, alla sinistra o al centro; ammesso che di tali categorie si possa ancora oggi discorrere, a fronte di un sostanziale appiattimento delle ideologie e dei valori.

La vera aggressione è al principio di legalità, in particolare a quello formale, ovvero ai cardini della democrazia, laddove questa riforma, così come tutte le riforme costituzionali – effettuate o tentate negli ultimi lustri, nonché già oggetto dei programmi di governo (e dico, infatti, governo!)- svilisce il ruolo del Parlamento, minando così le fondamenta dello Stato di diritto.

Ecco, allora a me preme oggi soffermare l’attenzione della platea, dei cittadini che ci ascoltano, su tre aspetti fondamentali, più che concentrarmi su dati di dettaglio o tecnici della materia che lascio ai loro approfondimenti, dovendo -a mia volta- imparare dagli illustri Relatori oggi presenti, come quelli già ascoltati.

1. Anzitutto, la prima nota critica che credo si debba levare sul DDL Calderoli è l’assenza di ogni coinvolgimento popolare nelle decisioni. Non sfugge che nel nostro ordinamento è previsto perfino un procedimento di modifica della carta costituzionale di tipo intra-parlamentare, che non impone la consultazione dei cittadini, avendo peraltro, la norma oggetto del nostro dibattere, natura e rango diversi da una modifica costituzionale, così come diverse sono procedura di adozione e finalità. Epperò, ragioni di opportunità politica (se non di vera e propria legittimità sostanziale) avrebbero imposto e imporrebbero, tutt’ora, dato che si parla di metter mano alla Costituzione, ancorché negli aspetti attuativi, un interpello dei consociati, magari anche informale, realizzato attraverso un nutrito dibattito pubblico o mediante spazi riservati ad hoc all’argomento nei sistemi di pubblica informazione, in modo da garantire almeno un’adeguata diffusione e conoscenza della notizia di riforma.

Tutti aspetti, questi, che, come è noto, fanno difetto oggigiorno e con sempre maggiore aggravio dello stato di consapevolezza civica; fatta eccezione per poche, importanti, iniziative come quella di stamani. Ora, in disparte le criticità dell’attuale sistema di elezione parlamentare, quindi anche di selezione ngovernativa, del quale non ci si può certo occupare in questa sede, non potendo però non osservare come la vigente legge elettorale, che non garantisce rappresentatività e consente, anzi, giochi di assegnazione e spartizione di incarichi politici tramite il meccanismo delle liste bloccate, resta sempre sullo sfondo quando si tratta di considerare riforme del calibro di quella che ci occupa stamani, e ciò specialmente con riguardo alla legittimazione democratica degli organi che le adottano.

In disparte tutto questo, dicevo, meccanismi come quelli descritti consentirebbero un recupero di legittimazione almeno a valle, secondo le analoghe procedure amministrative del cosiddetto notice and comment, permettendo alla cittadinanza di esprimersi, eventualmente lo ritenga, nelle forme di partecipazione attiva al dibattito politico, tramite il sistema degli scioperi, delle pubbliche riunioni e manifestazioni, fino allo strumento referendario. Invece, tutto resta nelle inaccessibili torri d’avorio della politica di palazzo, fino ad avvenuto compimento delle riforme, mentre quello che chiamano popolino, con volontà stigmatizzante, e che invece sarebbe a ben vedere il Popolo con la P maiuscola, detentore della sovranità nella Repubblica, ai sensi dell’art.1 Cost., viene schiacciato contro il televisore da programmi demenziali o intontito da notizie inutili, come quelle malate di cronaca nera, nerissima, atroce. Alla faccia del pubblico servizio di informazione.

2. Accanto a questo primo spunto di osservazione, rimanendo fedeli alle premesse, occorre poi porre in evidenza in che parti la riforma Calderoli si inscrive tra le varie forme di mutilazione del principio di legalità, specialmente quello formale, come si accennava, espresso massimamente nel corollario della riserva di legge. Al riguardo, va notato anzi che un’analisi sistemica e complessiva -non atomistica- colloca la legge di attuazione costituzionale a firma Calderoli, così come le altre riforme, anche costituzionali, del governo – leggi: premierato – (ma meglio si dovrebbe dire, come si accennava, nello stesso, identico, modo delle riforme riuscite o, grazie ai cittadini, fallite negli ultimi decenni, a prescindere dalla connotazione politica, così come nella gestione giuridica della pandemia); la colloca, dicevo, in una linea di continuità individuata dalla volontà di esautorare il Parlamento. Vediamo, più precisamente, in che parti del DDL Calderoli possono essere ricavati alcuni indici sintomatici di questa tendenza.

a. Anzitutto, il procedimento di approvazione delle proposte di intesa. Allorché il dettato costituzionale recita: forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite dallo Stato alle Regioni a statuto ordinario, va da sé il significato letterale che inchioda interpreti e attuatori al perimetro semantico del lemma: attribuire, verbo transitivo, implica una attività di assegnazione, non un recepimento passivo di decisioni provenienti dal basso.

b. Con riguardo ancora alle intese, va inoltre considerata la violazione della riserva di legge contenuta nello stesso art.116 Cost. che, al comma 3, recita: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti certe e limitate materie, possono essere attribuite ad altre Regioni, (rispetto a quelle a statuto speciale, cui la disposizione si riferisce nella parte precedente) possono essere attribuite ad altre Regioni con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, e nel rispetto dei princìpi finanziari contenuti all’art. 119. E, ancora la disposizione, precisa chiaramente: tale legge di attribuzione è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di un’intesa fra lo Stato e la Regione interessata. Al contrario di quanto prospetta il DDL Calderoli, quindi, secondo la Costituzione, l’intesa da sola non basta, ma è un presupposto e nemmeno esclusivo dell’attuazione per via legale della devoluzione; la legge di attuazione, cioè, non si limita semplicemente a recepire l’intesa, secondo il modello ormai invalso di un Parlamento quale mero organo ratificatore di decisioni assunte altrove.

Non ci si sofferma sulla patente illegittimità di una devoluzione integrale delle materie contenute all’art.117 nelle lettere richiamate dal 116, chiaramente impedita non solo dall’avversione dell’ordinamento, tutto, per soluzioni assolutiste e radicali, aprioristiche, ma ben più dal bisogno di una razionale valutazione praticata dall’organo statale, come insegna la Corte costituzionale nella sua giurisprudenza, chiosando sul punto con una nota di colore, che spero mi consentirete: in Italia, i governatori non esistono! Bene rammentarlo.

c. Infine, il più grave passaggio del disegno di legge dal quale trapela l’intenzione violativa della legalità e lo sbeffeggio del ruolo parlamentare nelle decisioni politiche è quello per cui il Parlamento risulta escluso dalla definizione dei contenuti dell’intesa. Parrebbe, in sostanza, che l’art. 2, coma 5, del DDL Calderoli preveda un procedimento di approvazione delle intese tra Stato e Regione così riassumibile: il governo e la giunta regionale, entrambi organi espressivi del potere esecutivo dello stato, sebbene a diversi livelli, nazionale e territoriale, la predispongono; l’intesa viene poi presentata alle Camere, alle quali è assegnato un periodo di 60 giorni per esprimersi sulla sua opportunità e/o legittimità, astrattamente, si badi,dopodiché, decorso inutilmente tale termine, il silenzio vale assenso e l’intesa si intende approvata e può essere trasmessa alla Regione per l’approvazione definitiva.

Ora, volendo rimanere col governo nel perimetro delle categorie amministrativistiche, vista la descritta, bizzarra, forma di silenzio assenso a valore provvedimentale che si ha in animo di introdurre nell’ordinamento, è quanto meno singolare che nel Paese del giudizio dell’ottemperanza, come noto, rito inventato per costringere l’amministrazione, che è longa manus dell’esecutivo, a mdare attuazione alle sentenze, proprio tale potere pretenda dall’organo politico statale, come noto mlibero nella sua operatività anche rispetto alle volontà dei cittadini, un’immediata attivazione! Avverso tale obiezione non giova certo osservare che di meccanismi simili l’ordinamento ne conosce di ulteriori, in materia di legislazione delegata, ad esempio, come pure taluni fa in dottrina, poiché il rilievo delle questioni non è – ictu oculi – paritario, incidendo la descritta tecnica della mmessa in mora in modo radicale, in questa parte, nella separazione dei poteri e dunque, più latamente, nella forma di Stato.

3. Ma ancora rimanendo fedeli alle dichiarazioni preliminari di questo mio intervento, non volendo scivolare in considerazioni di ordine troppo tecnico, vengo al terzo aspetto oggetto di attenzione,

attinente invece agli interventi sulla Costituzione o afferenti alla Costituzione, argomento che consente di tirare le fila del discorso. Si è visto come il DDL Calderoli sia votato nominalmente all’attuazione costituzionale, sebbene si tratti della solo eventuale attuazione di una moderna riforma costituzionale e su tale aspetto è opportuno spendere alcune brevi considerazioni.

Va ricordato, in particolare, che questa riforma è a sua volta il frutto di una manomissione costituzionale, di un azzardo, quello avvenuto nel 2001 tramite l’innovazione del Titolo V. La possibilità di una differenziazione istituzionalizzata delle competenze delle regioni a statuto ordinario non è, perciò, un portato dell’originaria configurazione costituzionale. Tutto sommato, una modifica anche ben riuscita, se si considera il lodevole intento che l’ha mossa, quello di garantire e di sviluppare due principi che avvantaggiano il grado di democraticità di un ordinamento, quali la sussidiarietà verticale e quella orizzontale, come noto, rivolti entrambi a instaurare regimi di governo e di regolazione cosiddetti di prossimità, allontanandosi dai cittadini e dai territori secondo un criterio di residualità e quindi di sussidiarietà, appunto. Tanto che alcuni costituzionalisti, chiamati a esprimersi su pregressi tentativi di attuazione dell’autonomia, in passato, hanno già chiarito che tale concetto, quello di autonomia, e anche quello di decentramento sarebbero serventi al rafforzamento di altre dimensioni della democrazia, come la democrazia partecipativa e di prossimità, ma non muoverebbero verso una differenziazione di natura marcatamente legislativa.

E penso, in questo senso, al Prof. Lucarelli, per cui l’autonomia è strumento per consentire ai cittadini di partecipare attivamente alla vita degli enti territoriali, dato che sposta l’assetto delle considerazioni da una dimensione accentrata a plurime e diversificate dimensioni locali, connotate da distinte condizioni socio-economiche e territoriali, dove è il Comune, l’ente più trascurato e forse più importante degli altri in quest’ottica, a ricoprire un ruolo chiave nelle dinamiche pubbliche di amministrazione e governo del territorio. Ciò, però, evidentemente, sempre in un quadro normativo unitario, in quanto l’art. 116, comma 3, Cost., deve essere finalizzato ad ampliare la sfera di autonomia e del decentramento amministrativo, piuttosto che incidere sul regime delle competenze legislative di cui all’art. 117, comma 3 Cost.

Quindi, si nota come è sempre una questione di bilanciamento tra diritti ed esigenze, di modalità realizzative degli scopi ricercati, ci insegna la Corte costituzionale, dovendo riuscire a equilibrare le necessità sulle quali poggia il regionalismo che -se sano- risponde a una volontà politica valoriale,  finalizzata a valorizzare le peculiarità dei singoli specifici territori e del centralismo, cui non può rinunciarsi, come le esperienze del Covid hanno insegnato, dovendo garantire uniformità decisionale almeno nelle linee di indirizzo generale della politica, come del governo, del territorio nazionale. Da qui, però, a ritenere meritevole il principio della differenziazione tra regioni nelle forme di cui al DDL Calderoli corre molta acqua partitica, potremmo dire..”.