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Forum Tramandare del 17 aprile 2021

Dal controllo dello stato al controllo di mostri tentacolari o dalla padella alla brace

Per Fabrizio Arossa, la libertà di stampa e d’informazione nasce nel ‘600 in Inghilterra come corollario della libertà di coscienza. Si sviluppa nel ‘700 con le rivoluzioni francese e americana. In Italia nel 1848 trova cittadinanza nello Statuto Albertino. In ogni caso, sempre rispetto all’assolutismo del sovrano. Anche oggi l’informazione è imbavagliata, torturata e uccisa dallo Stato in paesi come la Turchia, l’Egitto, la Russia. Pure nei paesi dove lo stato non mette a repentaglio la vita dei giornalisti o di chi si esprime criticamente, come in Italia, la libertà di stampa è sottoposta a controlli riconducibili allo Stato. Oggi però ci soffermiamo su quelli che sono definiti nuovi nemici di queste libertà, che non hanno nome e cognome, non sono soggetti individuabili. Sono dei quasi-fenomeni e sono tre: il big tech1; l’intelligenza artificiale nel giornalismo; il tribalismo identitario che è succube dei due primi; e il nuovo analfabetismo funzionale.

Parliamo del primo, i big tech2. Condiziona la libertà di espressione, in vari modi.

1) Drenando risorse pubblicitaria alla stampa, facendo fallire il modello di business sostenuto dalla pubblicità, provocando, come dice il New York Times, la perdita della metà dei posti di lavoro. Google e Facebook sono diventati i più grandi distributori di notizie nella storia dell’umanità. In Australia, per ogni 100 dollari in inserzioni pubblicitarie, 70 vanno a Google e Facebook3.

2) Influenzando i contenuti, come nel caso di sospensione di attività o del canale digitale a un soggetto privato, incidendo sul dibattito pubblico e creando una limitazione discrezionale del perimetro di diffusione del pensiero.

3) Evitando di correggere la disinformazione o alimentandola, anche involontariamente con le fake news disseminate da bots.

4) Soprattutto sviluppando modelli predittivi sulla base dei dati estratti con cui indirizzare, manipolare scelte informative.

La falsa euforia di Internet

Come si è passato dall’immagine di Internet come strumento di libertà assoluta, di spazio senza confine d’apprendimento di fatti, concetti, etc. a considerare la rete come limitazione allo sviluppo del pensiero e dell’informazione? Nel libro Comunicazione e Potere4, Manuel Castells analizzava il passaggio dal controllo dell’informazione da parte da business e governi alla comunicazione autocontrollata, auto-generativa e autodeterminata, individuando in quest’ultima un contropotere. Celebrava internet, come universo altamente differenziato, e l’autonomia dei soggetti comunicanti, in confronto di proprietari e regolatori. Secondo Castells, le aziende di Internet avevano interesse a smerciare comunicazione priva di restrizioni per intensificare il traffico nella rete: a traffico più intenso, più business. Per lui, il passaggio della comunicazione dall’alto (controllata da business e governi) a quella interattiva (dal basso) sfidava l’ordine sociale costituito dagli attori dominanti nel controllo del processo comunicativo. Non si attendeva però che quelle diventassero colossi del tech. Castells sosteneva che la comunicazione, che permette di plasmare le menti, è un sistema di dominio più potente e più duraturo della sottomissione dei corpi, più che l’intimidazione e la violenza. All’epoca delle rivolte, di Wikileaks, della primavera araba, Castells celebrava internet, ma con un’analisi che oggi sembra datata. Parlava dei social controllati dagli utenti, di disincentivo a chi voleva impedire la libera comunicazione: avrebbe perso utenti, le barriere all’ingresso erano basse. Celebrava YouTube come bastione della società di espressione, della comunicazione di massa. Era il primo decennio del nostro secolo. Dal 2010-11 si è iniziato ad avvisare i limiti posti dagli spazi digitali e l’imposizione di regole e controlli dai colossi.

La ricerca d’informazione ci ingabbia nelle nostre opinioni

Nel 2011 Eli Pariser, attivista d’internet, sviluppò il concetto di “filter bubble” (la gabbia di filtri)5. Le ricerche in rete vengono filtrate da algoritmi che selezionano le informazioni sulla base di dati raccolti sull’utente, la sua geolocalizzazione e le sue ricerche in rete: Google trattiene lo storico di queste per sempre. L’utente, staccato da informazioni che gli algoritmi decidono siano contradittorie al proprio punto di vista, è rinchiuso in una bolla ideologica o culturale. Pariser fa l’esempio di utenti localizzati in diverse parti del mondo. Digitando “Egitto”, uno trova informazione sulla primavera araba e un altro su opportunità di viaggio. Digitando British Petroleum, ad alcuni appaiono opportunità d’investimento, ad altri, il disastro ecologico nel golfo di Messico. Il filtro non è patrimonio dei big tech, lo usano siti tradizionali come CNN, o siti che installano cookies per poi rivendere dati a inserzionisti. Se negli USA cerchi “depressione” sul sito del dizionario, questo ti infila 230 cookies che affollano lo schermo con pubblicità di farmaci antidepressivi.

La logica è economica, ma il risultato è l’impoverimento dell’informazione e l’aridità culturale. Damiano Palano, scientista politico italiano, parla di “bubble democracy”6: il pubblico viene dissolto in una miriade di bolle autoreferenziali, rafforzando i meccanismi di polarizzazione. Il filtro chiude a nuove idee, blocca accessi a dati rilevanti, impedisce d’imparare e rende vulnerabili alla propaganda, alla manipolazione. Il 60% degli utenti sono inconsapevoli dell’uso dei propri dati da Facebook. Inoltre, la veridicità dell’informazione è sostituita con la loro efficacia narrativa. Certi studiosi sostengono che il “filter bubble” sia esagerato, che contano più i dati anagrafici, che il pregiudizio precede e non segue il filtro. Ma studi recenti confermano risultati diversi a seconda dove ci si trova, per voci come vaccino, migrazione o controllo delle armi.

I nostri comportamenti: merce, generatori di surplus, fonte di assoggettamento

Veniamo al “Capitalismo di sorveglianza”7 di Soshana Zuboff. Questo utilizza l’esperienza umana per estrarre dati che, processati da macchine, diventano surplus comportamentale, cioè modelli che anticipano cosa faremo nell’immediato, a medio e lungo termine. Questi si negoziano nel “mercato dei comportamenti futuri”. L’obiettivo non è solo decifrarli, ma indirizzare gli utenti verso fini scelti da altri, plasmarli, non solo per fare profitti ma per creare esternalità controllate. L’estrazione e il trattamento dei dati alla propria insaputa comporta l’espropriazione del plusvalore comportamentale, alla stessa stregua dell’alienazione marxiana del plusvalore. Mentre il capitalismo in Marx si nutre del lavoro, quello di sorveglianza si nutre di ogni aspetto dell’esperienza umana: la produzione di beni e servizi è subordinata alla manipolazione comportamentale. Zuboff cancella l’illusione di Internet come spazio inclusivo, di democratizzazione della conoscenza. La connessione digitale diventa un mezzo ai fini commerciali di terzi, usato non solo per l’acquisto mirato, ma per una miriade di altri scopi. È la cifra dello sviluppo di tutte le imprese d’internet che raggiungono una dimensione notevole. Dunque, paghiamo per essere dominati o ci assoggettiamo senza saperlo.

La rivoluzione digitale fiorisce a spese dell’umano e dell’umanità

Si dice, se il “servizio è gratis, il prodotto sei tu”. Gli utenti non sono i “clienti” del capitalismo della sorveglianza, ma le fonti del prodotto, del surplus comportamentale, dei modelli predittivi. Oggetto di operazioni di estrazione di materia prima. I clienti sono aziende che operano nel mercato opaco dei comportamenti futuri. Questo crea asimmetrie di informazione senza precedenti. Il capitalismo di sorveglianza sa tutto su di noi, ma le sue attività dietro le quinte ci sono ignote. Accumulano conoscenza da noi, ma non per noi, la privatizzano. La Zuboff parla della “divisione dell’apprendimento nella società”, equiparabile alla divisione del lavoro nel secolo XVIII. Oggi, elementi della nostra cultura come documenti, linguaggio, arte, etc., sono digitalizzati e restituiti alla società attraverso algoritmi intelligenti. Come viene riallocata la conoscenza e chi ne decide? La Zuboff dice che i testi inseriti in rete diventano oggetto di estrazione del plusvalore da chi compone e controlla il secondo testo, restituito dagli algoritmi. La privatizzazione non autorizzata della conoscenza mette in pericolo l’autonomia dell’essere umano, la democrazia stessa. La Zuboff individua due minacce. Una, come la rivoluzione industriale è fiorita a spese della natura e oggi ne paghiamo le conseguenze, la rivoluzione digitale fiorisce a spese dell’essere umano. Due, la precarizzazione del diritto al futuro, della capacità fondamentale del singolo d’immaginare, impegnarsi, progettarsi, comprendere il libero arbitrio. Solo una volontà autodeterminata può influenzare. Invece il capitalismo di sorveglianza vende certezza, orienta i comportamenti a fine essenzialmente commerciali, portando, in ultima analisi, all’estinzione dell’individualità espressa liberamente in società, anche attraverso la politica, che viene così sovvertita. La socializzazione si costruisce tra chi condivide le stesse idee e interessi. Anni di liberismo hanno schiacciato l’autostima e il desiderio di autonomia. Ora si cerca sostegno su Internet. Il documentario Social Dilemma, prodotto da Netflix, intervista i pentiti del big tech sulla costruzione di modelli predittivi, business essenziale delle imprese della rete. Gli utenti sono influenzati, manipolati, anche attraverso “raccomandazioni”, elaborate dagli algoritmi. Sul piano informativo il discorso pubblico si impoverisce, le opinioni si radicalizzano. Si costruiscono fatti alternativi. Se non riusciamo a metterci d’accordo su ciò che è vero o no, dice uno dei pentiti del big tech, siamo fregati.

Rispondere alla minaccia

Come difendere la libertà d’essere informati quando la stessa nozione della libertà di espressione è sotto attacco? In gioco è l’autonomia dell’individuo, la capacità d’esprimere un pensiero e compiere un atto di volontà. Gli attuali strumenti giuridici sono inadeguati. Occorre una presa di consapevolezza, una mobilitazione sociale. Le corporations non sono intrinsecamente malvagie, reagiscono alla pressione sociale. Fanno attenzione agli investitori, altrimenti non si spiegherebbe il successo dei fondi ambientali o l’autopromozione delle compagnie energetiche come campioni delle energie rinnovabili. Queste sono spinte alla transizione ecologica anche dalla pressione sociale, culturale e politica. Allo stesso modo si può spingere le aziende del tech alla transizione digitale, verso l’uso di tecnologia che rispetti la persona e i suoi diritti fondamentali. Nel 2012 è stata creata la Foundation for Human Technology8. I big tech non vogliono perdere i propri users. Si vedono i primi passi, ma si deve aumentare la pressione, arricchire il proprio capitale sociale, connettersi con chi la pensa diversamente, usare i siti di fact checking, i motori di ricerca alternativi, rimuovere i cookies.

L’utilizzo dell’intelligenza artificiale (IA) dai media

Il secondo nemico, l’IA, raccoglie, produce e distribuisce informazione. Ciò che interessa è la produzione di contenuto da parte della macchina. Anni fa, Los Angeles Times produsse un articolo su un terremoto tre minuti prima che accadesse, scritto da una macchina collegata con l’US Geological server. Oggi l’IA scrive migliaia di articoli anche con strumenti di generazione di linguaggio naturale, sviluppati anche dai grandi media come BBC e altri. Un terzo dei contenuti è generato dai software. Partendo dall’analisi dei dati, estraggono i fatti rilevanti, costruiscono la narrativa e scrivono. Quasi tutti usano l’IA per distribuire informazione. In più, Google News trova l’articolo giusto da mandare nel momento giusto, sulla base di ciò che la persona ha letto in passato. La polarizzazione aumenta, la fantasia affievolisce, così come il contatto con la diversità di fonti d’informazione. Si rinforza e conferma il pregiudizio. Si crea una tirannia del più forte. Prima il pluralismo come cacofonia di voci separate. Si facilita la diffusione di disinformazione. L’algoritmo danneggia perché è frutto di scelte umane. É addestrato. Aumenta l’asimmetria tra grandi e piccole organizzazioni d’informazione. Quest’ultime hanno meno opportunità di sviluppare una strategia d’IA. Nonostante ciò, si può collaborare con l’IA, perché ancora non sa interpretare, creare, necessita di dati strutturati per scrivere, non può usare l’immaginazione. I valori alla base dell’algoritmo devono essere umani. Esempi di collaborazione si trovano alla London School of Economics, l’università d’Amsterdam, il progetto INJECT9, finanziato dall’UE aggrega risorse per aiutare lo sviluppo dell’IA nelle piccole e medie imprese, liberare i giornalisti di report fattuali e aumentare il tempo di creatività. C’è il rischio che molti progetti siano finanziati dai Big tech. Bisogna restare attenti, l’informazione è bene comune.

L’analfabetismo funzionale (AF) dei cittadini

Questo terzo nemico sta diventando un fenomeno mondiale. Si riducono le vendite di libri, la capacità di concentrazione dei lettori, etc. In Italia, il fenomeno viene da lontano, ne ha parlato Tullio De Mauro10. Tra il 30 e il 47% degli italiani sono analfabeti funzionali. Sanno leggere ma non interpretare un testo. Senza capacità critica, credono quel che leggono. Non sanno risolvere problemi minimamente complessi, quindi, non esprimono la propria potenzialità e pensiero autonomo. Per di Mauro, addirittura, l’80% degli italiani sarebbero a rischio di AF. Una tragedia nazionale. Se ne dovrebbe occupare la politica. L’AF è terreno fertile per le fake news e la manipolazione, anche nelle reti neurali. Queste evolvono grazie all’interazione con l’ambiente naturale e sociale. Non conta solo come i messaggi informativi passino, ma in che modo siano elaborati dai neuroni. Le generazioni nate oggi: saranno pensanti o controllati da altri? Il diritto fondamentale a esprimere pensieri dipende dalla capacità analitica, lo spirito critico, l’immaginazione, l’apertura mentale, sono valori che vanno trasmessi con l’educazione. La persona va rimessa al centro, potenziando le risorse educative.

Liberarsi da una estetica che imprigiona l’intelligenza

Edoardo Gagliardi, utente e giornalista Youtuber ha esperimentato questa piattaforma: ByoBlu11 (dove lavora) ha subito una censura di contenuto. Comunque, è un altro aspetto della piattaforma che comporta una sfida per difendere l’informazione libera. Si tratta della estetica che YouTube ha costruito negli ultimi anni e che non serve soltanto alla sua gestione interna, ma che ha ricadute politiche, anche in relazione all’analfabetismo funzionale. Cosa è questa estetica? Ad esempio, questa conferenza mesa su YouTube sarà seguita da poche persone. Perché? La sua durata. Le statistiche indicano che la durata media di una visualizzazione su YouTube è di 5-10 minuti al massimo. Qualcuno lo spiega in rapporto alla natura umana. L’attenzione umana non può rimanere più di cinque minuti davanti ad un video. Non credo sia così o non è sempre così. É l’estetica creata da YouTube che porta l’utente a guardare un video non più di due minuti. Cosa significa questo? Che tutto si concentra in quei due minuti. Se qualcosa sfora quei tempi, benché sia la più interessante al mondo, non arriverà a nessuno. Questo è oggi un punto fondamentale da discutere. Le persone si lamentano di non avere tempo. Ma se contiamo il tempo che una persona passa a navigare su YouTube, saltando da un video all’altro, arriviamo all’ordine di ore. Questo significa che un individuo che sta davanti a YouTube per un’ora, guarda semplicemente un minuto di questo e un minuto di quel video. Cosa ha imparato questa persona? Probabilmente pochissimo. Quanto ha appreso dal contenuto che si voleva comunicare? Poco. Uno degli obbiettivi dell’informazione libera dovrebbe essere di emanciparsi dalla costrizione costruita da YouTube nel corso del tempo. Che poi, è diventata normale. Oggi soprattutto per i più giovani la normalità è un video che non superi 5 minuti, perché l’attenzione è bassa, perché “non si può sopportare un video troppo pesante” (usando un linguaggio giovanile), cioè che superi i 10 minuti. Sono contrario. Ci sono dei contenuti che richiedono dei tempi d’approfondimento, di scambio, anche dialettico. ByoBlu va oltre. Propone dei contenuti che superano i tempi proposti da YouTube, per dare alle persone la possibilità di riflettere, capire la complessità di un argomento, superare l’analfabetismo funzionale alimentato proprio da YouTube con la sua estetica.

Visualizzazioni ed entrate, tirannia creata da YouTube

Emanciparsi, per chi lavora utilizzando YouTube, è difficile. Questa piattaforma utilizza due metodi per tenere accalappiati utenti e giornalisti. Uno, le visualizzazioni. Due, le entrate, argomento col quale YouTube vincola a sé i giornalisti. Perché parlare di questi due elementi? Da un lato, (facendo una parentesi) visualizzazioni è un termine improprio. In realtà chi apre il video non è detto che lo veda interamente. Le indicazioni che appaiono sotto i video sono dei clic. Corrispondono alle persone che li hanno aperti. Da quella massa si devono togliere quelli che l’hanno cliccato per caso, coloro che l’hanno visionato qualche secondo. Facendo questa scrematura, appare che il video è stato visto davvero da molte meno persone di quelle segnalate. Ma, per chi fa informazione, quei clic diventano fondamentali. E in base a loro che si guadagna. Chi fa informazione non può staccarsi completamente da questa logica. Un po’ come i dipendenti da sostanze, che per qualche giorno riescono a smettere, per poi ricascare. Nonostante la difficoltà di farlo, trovare una altra strada possibile da percorrere è oggi una necessità. Nel 2007-2008, non era ancora pensabile sviluppare un giornalismo come quello di oggi. Le possibilità offerte da YouTube per caricare dei video erano molto limitate, non più di 15 minuti e di qualità non eccelsa. «All’epoca lavoravo in una delle prime tv web sperimentali in Italia. Ricordo che avevamo il nostro server a pagamento. Caricavamo quel che volevamo, di durata variabile. Si dovrebbe tornare a questo. È vero che YouTube ha aperto una grande possibilità a costo zero. Ma ora stiamo pagando il prezzo di questo costo zero, cioè l’impossibilità di esprimersi. Paradossalmente eravamo molti più liberi dieci anni fa. Si dipendeva di un servizio a pagamento e si disponeva del luogo fisso dove caricare i contenuti. Per chi fa giornalismo indipendente oggi, questo significa spostarsi progressivamente da YouTube verso altre forme di espressione. A ByoBlu lo stiamo facendo. Ha un costo e non è da tutti sostenibile.»

Riflettere sulle alternative

Comunque ci sono delle alternative alle piattaforme, per la comunicazione online che è la realtà di oggi e del futuro. Ma esistono altre forme di comunicazione. In Gran Bretagna (GB), il governo offre la possibilità di creare delle radio comunitarie, cioè concede delle licenze di tre anni a gruppi di giornalisti che desiderano aprire una stazione radio al servizio di una piccola comunità, in base ad un progetto. Se questo si realizza, la licenza si prolunga. Questo è possibile, perché in GB si è operato il passaggio dalla modulazione di frequenza (FM) al digitale. Cosa che si sarebbe dovuto fare in Italia, ma non è accaduto ancora. Per cui in Italia grandi emittenti radiofoniche sono sia sul digitale, sia su FM. Liberare la modulazione di frequenza permette alle emissioni comunitarie, di bassa potenza, che non interferiscono con le altre, di poter funzionare. A livello politico, significa dare alle comunità la possibilità di sviluppare un proprio canale d’informazione, alternativo delle piattaforme e pure alle emittenti radiofoniche o televisive mainstream. È una possibile strada da percorrere. Qualcuno dice, vuoi tornare agli anni 70 della radiofonia? Non è così perché la radiofonia vive, non vegeta. Oggi, con l’obbligo di stare a casa, l’ascolto aumenta. L’idea è di dare a gruppi di giornalisti indipendenti la possibilità di poter esprimersi in modo libero e al servizio di una comunità, informando su notizie altrimenti ignorate da altri mezzi. Dunque, due possibilità da valutare. Lo spostamento del giornalismo indipendente su altre piattaforme online e, per chi non può permettersi i costi, la possibilità di sviluppare delle forme di giornalismo locale, con mezzi di comunicazione tradizionali, come la radio o la TV. In molti paesi europei questo si fa: i mezzi detti tradizionali sono ancora molto diffusi. In Italia non si fa per un discorso di censura. Le grandi emittenti radiofoniche non vogliono perdere gli ascoltatori in FM o digitale. Quindi le occupano tutte e due. Decidendo di fare lo switch sul digitale, altri paesi hanno lasciato la possibilità di utilizzare le FM a livello locale, con basse potenze e meno inquinamento elettromagnetico. Inoltre, emanciparci dalla estetica YouTube significa combattere pure l’analfabetismo funzionale che dilaga oggi. Analfabetismo che riguarda soprattutto i giovani, che apprendono la mentalità veloce, di consumo usa e getta, che YouTube vuole imporre. Una emancipazione sia di contenuto, profondo, alternativo, che di presentazione, dato che YouTube vincola ancora di più chi fa informazione libera e indipendente.

L’illusione di libertà mantenuta da Google e Facebook

Marta Pettolino, direttrice di due testate giornalistiche online, The Social Post e Momento Finanza, ha creduto e crede ancor oggi nel digitale e nella libertà dei media indipendenti. Ma la strada da fare è tanta. Anche i non addetti ai lavori sanno quanto l’informazione sia manipolata dalle piattaforme, soprattutto Google e Facebook. Queste rendono il lettore pigro. La maggior parte delle persone legge l’informazione sullo smartphone, ed hanno una selezione delle notizie da leggere senza una reale richiesta da parte dell’utente. Addirittura, si legge sull’orologio, si chiede al telefono di ricercare una notizia. Il mancato sforzo attivo del lettore e l’informazione data in forma gratuita sono un ostacolo per il giornalismo libero e indipendente. Reggere il modello economico con soli introiti pubblicitari è possibile per pochi gruppi editoriali che governano la quasi totalità dell’informazione tradizionale e per le TV. Questo, a scapito di chi vuol fare informazione libera e indipendente e fa fatica nella logica di gratuità.

In teoria, le piattaforme hanno creato l’illusione di una libertà di pensiero. Dove nasce il problema? Semplificando possiamo dire che una volta avevamo tre attori: giornalisti, notizie e lettore. Oggi, questi ci sono ancora. Ciò che è cambiato è che tutti i tre sono manipolati dalle piattaforme, soprattutto da Google e Facebook. Essere manipolati vuol dire essere governati da algoritmi segreti, che decidono quali notizie farci vedere.

Lettori e giornalisti come lettori. Come detto, lo sforzo di molti si riduce a cercare su Google News le notizie principali in una sorta di rassegna stampa studiata ad hoc per il lettore. Ma chi decide cosa inserire in essa? Google. Una parte è dedicata a notizie più generali, sulla base della profilazione e geolocalizzazione e una parte dedicata alla persona: il “per te” di G News. G News mi restituisce, secondo il mio profilo, le notizie che pensa siano di mio interesse. Ma chi decide cosa mi interessa?

Se si interroga il motore di ricerca facendo una ricerca, quali sono i link o i giornali che appaiono in prima o seconda posizione? Preparando questa conferenza ho cercato ‘Von der Leyen’. Il primo link restituito come fonte era un sito Meteo. Al terzo posto Repubblica e al quarto la RAI. Questo apre degli interrogativi molto importanti. Primo sul lettore: chi fa attenzione alla testata che sta leggendo o al giornalista che scrive? Tutto finisce nel grosso calderone di Google, non si fa più attenzione. Eppure, nel passato, si diceva: ho sentito questo in televisione, sulla RAI o sulle reti di Berlusconi, perché c’era questa dicotomia. Si sapeva chi diceva cosa. Questa dietrologia, questo approfondimento si è perso. Diventa la stessa cosa leggere un corrispondente che è in Turchia da 20 anni o la vicina di casa che ha fatto un corso di SEO12. Può essere la stessa cosa? La riflessione riguarda lettori e giornalisti, che sono in primis lettori essi stessi.

Giornalisti come comunicatori. Nel nostro esempio il sito di meteo è stato sicuramente più abile con le tecniche SEO. La SEO è un insieme di tecniche atte all’ottimizzazione del sito, o di una notizia, per migliorare il posizionamento sui motori di ricerca. Il giornalista, che chi si appresta a scrivere un articolo, deve prima di tutto scegliere una parola chiave, nel nostro esempio Von der Leyen. Questa parola deve apparire nel titolo, nel sottotitolo e in ogni paragrafo, con rischio di ridondanza. Poi deve scegliere parole correlate, come Erdogan, Turchia, etc., a seconda dell’articolo, da inserire in ogni paragrafo e titolo di paragrafo. Poi vengono i grassetti, anch’essi seguono delle regole, e così via con altre regole. E questo con il solo obbiettivo di mettere in evidenza l’articolo e dire a Google: prendilo, mettilo in alto. L’informazione diventa competizione, molto di più di quanto fosse in passato. Google decide le notizie alle quali il lettore deve accedere e svilisce il ruolo del giornalista, che diventa un compilatore di parole chiave, lasciando perdere la poesia, la riflessione e, soprattutto, lo spirito critico. Non solo. Google decide quali notizie il giornalista deva scrivere. Ed è la “viralità” a comandare nel modello di gratuità che richiede la diffusione capillare dell’articolo. Più persone lo aprono, più vedono le pubblicità abbinate. L’articolo fornisce la base economica per l’editore. Così, si conoscono a monte le notizie che diventeranno non virali. So già che tra un articolo su una trasmissione televisiva e uno sugli allevamenti intensivi, sarà solo il primo a diventare virale. Le scelte si fanno tra informazione libera e modello economico. Noi lo facciamo lo stesso, ma sappiamo che dobbiamo produrre il doppio per permetterci di scrivere anche articoli che non saranno presi da Google. La gratuità richiede riflessione.

Lettori come ricercatori. In lettore oggi ha più possibilità di essere informato e anche di informare, rispetto al passato, quando l’unica cosa che poteva fare, o quasi, era comprare i giornali o ascoltare la TV con poca possibilità di interagire. In teoria, ora il lettore può fare una ricerca attiva, non limitandosi a vedere News Feed di Facebook o G News. Quello che consiglio di fare sempre, anche ai miei studenti, è di fare almeno una ricerca virtuosa e interessante per la propria crescita, al giorno, per evitare che qualcuno decida per noi cosa dobbiamo leggere.

Giornalisti come intermediari. Le piattaforme hanno pure modificato il ruolo d’intermediazione giornalistica. Oggi i personaggi, anche politici, parlano direttamente al pubblico, attraverso i social network. L’apparente vantaggio, il contatto diretto, può generare problemi. Ad esempio, se un personaggio lancia una fake-news, senza il contraddittorio di un giornalista, cioè senza che qualcuno informato sui fatti possa replicare, questa informazione falsa si diffonde. Il giornalista vede, con la stessa tempistica di altri, la notizia. Mentre fa il lavoro di ricerca e verifica e scrive un pezzo, la fake news ha fatto il giro d’Italia. Si sa, una notizia è sempre più forte della sua smentita.

Altri aspetti. Questa falsa libertà apre ad un linguaggio sensazionalistico e ad una visione dicotomica della realtà: sei con me o contro di me. Sparisce la volontà di ascoltare chi la pensa diversamente, per sviluppare un pensiero critico, meno manipolabile e più libero. Così, le piattaforme che erano portatrici di una illusione di pluralità e di libertà, ci stanno portando verso una dittatura d’opinione.

Cosa si può fare per cambiare la situazione? Nonostante questo quadro, per me si può fare ancora molto. «La soluzione a mio avviso è non credere che sia un problema che riguardi solo il giornalismo, ma riguarda tutti come esseri umani pensanti. Abbiamo bisogno di un’azione congiunta: a livello legislativo, l’Europa si sta muovendo in questo senso, UE sta lavorando alla legge sui servizi digitali, che includeranno regole per le piattaforme online e soluzioni per affrontare i contenuti online nocivi o illegali, come per esempio la disinformazione. Poi, l’ordine dei giornalisti che deve tutelare i giornalisti, ma pure l’informazione, per il valore sociale che questa ha per i cittadini: è un bene comune. In questo senso, l’ordine dei giornalisti, non sta facendo niente. E questo è al contempo un appello e un rimprovero.»

A livello giornalistico si può pensare a professioni diverse: informatori che viaggiano con le agenzie di comunicazione che assicurano loro le ospitate televisive, i titoli di giornali e li fanno diventare dei veri influencer, in quello che ormai è diventato un grande reality show tra chi conta il numero di follower per sentirsi autorevole, in questa macchina che è sempre di più infointrattenimento più che giornalismo. E dall’altra parte ci sono i giornalisti che hanno scelto il mestiere per i suoi valori intrinseci: onestà, etica e spirito critico. Dobbiamo riappropriarci del lavoro intellettuale, perché è quello il nostro posto, non nei salotti d’intrattenimento, quello è un altro mestiere.

Poi, finalmente i cittadini. Spetta anche a loro la responsabilità di fare attenzione a cosa leggono, a chi scrive e su quale testata giornalistica. Dimostrare anche agli algoritmi di essere interessati, tramite le ricerche, a diversi argomenti. Leggere anche e soprattutto chi ha un’opinione o un approccio diverso dal proprio, come meccanismo per evitare la manipolazione e sviluppare lo spirito critico e la libertà di opinione e di pensiero.

La falsificazione della verità dei fatti ha una storia

Igor Staglianò, ascoltando gli interventi precedenti si chiede come e perché siamo potuti arrivare al disastro che constatiamo oggi, che danneggia l’esercizio effettivo della libertà individuale e collettiva. Si sofferma su “Quali contributi qualitativi ai processi di costruzione della verità dei fatti possono dare oggi i media indipendenti”: una riflessione basata sull’esperienza professionale che abbraccia un arco temporale abbastanza vasto in più di 40 anni.

Erano gli anni ’70 quando ha iniziato a fare le prime esperienze giornalistiche in un processo di “innamoramento” con il mestiere negli ultimi anni del liceo. È con il praticantato al mestiere giornalistico che apprende come il compito primario del giornalista debba essere il «racconto della verità dei fatti», espressione scolpita nella legge istitutiva dell’Ordine professionale. Sembra scontato che debba essere così. Nella realtà, questa regola aurea viene contraddetta ogni giorno da redattori e opinionisti (quindi, sia nelle cronache che nei commenti); essa si trasforma, quando va bene, nella “verità di Tizio o di Caio”. I fatti (e il loro racconto) scompaiono, lasciando il campo alle opinioni. Anzi, alla luce dell’esperienza odierna, i fatti abbandonano il terreno al bla-bla cacofonico dei talk televisivi riprodotti sui media tradizionali, sempre più intrecciati e interdipendenti fra loro: vedi Cairo/La 7/Corriere della Sera oppure Gedi/Repubblica/La Stampa and friends con una decina di altri quotidiani. Ciò che genera un abbassamento progressivo della qualità del racconto, esteso dalla carta stampata alla stampa digitale e multimediale. Tutto il gioco alla fine si trasforma in: “Tizio ha detto e Sempronio ha risposto”.

Sembra una novità, ma la genesi della situazione d’oggi risale a quasi 50 anni fa. Fu lo staff di Ronald Reagan (l’Ufficio per la Comunicazione della Casa Bianca) a creare, negli anni ’70, la “Line of the day”, la “story” del giorno, l’agenda politica del presidente: essa andava raccontata usando tutti i mezzi a disposizione. La “storia del giorno” fu interpretata egregiamente (e per la prima volta con autentico talento artistico) dall’ex attore di Hollywood. È con Reagan che si comincia a teorizzare espressamente il diritto del potere di creare la contro-realtà, andando ben oltre i tradizionali “arcana imperii” cui il potere attinge da che mondo è mondo. Siamo, non scordiamocelo, nel dopo-Watergate, scoperchiato da due grandi cronisti del “Washington Post”. Si trattava, dunque, di correre ai ripari: quel disastro per il potere costituito non poteva più ripetersi.

Si avvia, in tal modo, il meccanismo (che si affinerà via via nell’arco di un ventennio) con cui si predispone e si anticipa la narrazione, per così dire “giornalistica”; in sostanza, la comunicazione viene sceneggiata e precotta dagli storyteller.

Per avvicinarci a noi, è con Karl Rove, consigliere e stratega di G. W. Bush, che viene esplicitata la teoria e la pratica della contro-realtà che si dispiega compiutamente dopo con l’uso dei social media di Trump. L’impero non solo ha il potere (che ha sempre avuto, attraverso tutti i mezzi della propaganda) ma rivendica ed esercita espressamente il diritto di creare la contro-realtà. I reporter arrancano dietro a una macchina infernale sempre in movimento; e i guai per il giornalismo d’approfondimento crescono: mentre i giornalisti provano ad analizzare la realtà, il potere, attraverso tutti gli strumenti a disposizione, ne crea un’altra. È una rincorsa perdente per quel che fu il contro-potere (il quarto e il quinto, a seconda della classificazione che vogliamo dargli).

Banalizzare la realtà, renderla impercettibile

Secondo i principi dell’illuminismo e dell’empirismo (retroterra della borghesia liberale), i giornalisti, fino al cavallo del Terzo millennio, hanno creduto che le soluzioni ai problemi potessero emergere dall’analisi onesta e giudiziosa della realtà osservabile. Dopo la fine della Guerra Fredda (presentata addirittura come la “fine della storia”), le cose non funzionano più così: il potere ci ha messo in condizione di capirlo, se vogliamo capirlo davvero. E provo a spiegarmi con un episodio rimasto nella memoria di tutti quanti (o dei più). Vi ricordate certamente il discorso di George W. Bush sulla portaerei “Lincoln” davanti alla bandiera americana con lo striscione: “Mission Accomplished”. Era il primo maggio 2003: bisognava annunciare la vittoria americana e la sconfitta di Saddam Hussein, la fine della seconda guerra in Iraq.

La narrazione dell’evento racconta che la “Lincoln” si trovasse a ridosso del teatro di guerra, quindi in prossimità del Golfo Persico. In realtà la portaerei si trovava davanti alla costa di San Diego. E Scott Sforza, regista dell’evento in cui il “comandante in capo” atterra in divisa di top gun per dire al mondo che la missione era compiuta, dovrà fare i salti mortali per eliminare dall’inquadratura del fondale il profilo costiero della California: è qui che, nella realtà, incrociava la portaerei, ben lontana, quindi, dal teatro di guerra come verrà rappresentato e raccontato. Scott Sforza − va sottolineato − era un ex producer dell’ABC impiegato nella macchina della propaganda repubblicana, specializzato nei “fondali” davanti ai quali George W. Bush ha rilasciato, nel corso del suo mandato, le principali dichiarazioni pubbliche. Ed è stato assoldato assieme a una corposa squadra di designer e operatori delle Major hollywoodiane, contrattualizzata dal Pentagono su decisione del segretario alla difesa Donald H. Rumsfeld. Prima della compiuta “trasformazione della realtà in fiction” nell’esibizione sulla “Lincoln”, con un grande dispendio di soldi la sala stampa del quartier generale delle forze americane di stanza in Qatar era stata allestita in un hangar di stoccaggio riconvertito in uno studio televisivo ultramoderno costato un milione di dollari. E i briefing quotidiani con i reporter (embedded e non) si svolgevano davanti agli schermi al plasma come in uno show, con palco e attrezzatura elettronica per produrre in tempo reale video del combattimento, carte geografiche e diagrammi. L’industria della menzogna poteva celebrare il suo trionfo, meno di 20 anni fa. La messa in scena del primo maggio partorita dagli storyteller della Casa Bianca è stata disvelata molto tempo dopo. Ma intanto si era affermato un modello comunicativo e un assoggettamento pressoché totale dei reporter ai tempi e ai modi con cui dovevano/potevano svolgere il loro lavoro nel flusso incessante delle notizie.

Manipolare l’emotività, trasformarla in merce

Arriviamo così all’oggi, all’infotainment, che mescola informazione e intrattenimento, un genere dilagante oggi dappertutto: 24 ore su 24, 7 giorni su 7 (ciò che rende banale persino l’idea stessa di realtà, e con essa ciò che un tempo consideravamo notizie). Dall’America abbiamo importato su scala industriale (in quasi tutti i paesi) il gusto per le frottole, adattato alle varie realtà. Al grande pubblico italiano l’infotainment è stato imposto, con dosaggi sempre più massicci, da Maurizio Costanzo, col suo “Costanzo Show”, a cavallo tra anni ’80 e ‘90. È stato lui, in persona (e con la sua scuola), ad addestrare un’intera generazione di politici (l’attuale) alla banalizzazione del reale, codificata in esercizi pratici su come parlare in pubblico e davanti alla telecamera, riducendo il vocabolario a non più di 200-300 parole e standardizzando la gestualità. Siamo davanti alla pura banalizzazione del reale.

A questo punto, gli ingranaggi della grande “macchina narrante” hanno rimpiazzato il ragionamento razionale. Per Christian Salmon, essa è divenuta più pervasiva della stessa iconografia orwelliana della società totalitaria. Fioriscono le fiabe magiche dei guru del capitalismo, a iniziare da Steve Jobs, secondo cui le innovazioni creative della Apple sarebbero nate nel suo celeberrimo garage di Los Altos. Laddove, in massima parte, si è trattato − in questo e in tanti altri casi − del fallout di tecnologie militari “declassificate” veicolate attraverso riviste underground. Il “capitalismo emotivo” (per riprendere la definizione della sociologa Eva Illouz, dell’Università di Gerusalemme), precede il “capitalismo della sorveglianza” (che sarà descritto da Shoshana Zuboff). Esso ci mobilita incitando all’autenticità. Si appropria degli affetti fino a trasformarli in merce. Pensiamo solo alla nascita e crescita di Facebook, al suo sviluppo impetuoso: comincia con la ricerca di amici, compagni di scuola o parenti sparsi nel mondo; e, in un arco temporale brevissimo, diventa un gigantesco mercato dei dati. Il capitalismo emotivo, per l’appunto, diventa capitalismo della sorveglianza.

In tutto questo, che ci sta a fare il giornalismo d’oggi? I giornalisti fanno fatica a descrivere la realtà, perché le tecniche indotti ad usare (imposte dalla grande macchina narrativa dominata dal marketing) impediscono loro di trovare la realtà dei fatti, identificarla, decodificarla, vederla e raccontarla. Le tecniche della narrazione diventano il loro stesso fine. L’algoritmo, costruito attraverso l’applicazione delle più avanzate neuro-scienze, indirizza e governa le piattaforme strutturate dai predatori della Silicon Valley che oggi operano a man bassa nell’editoria digitale e informatica, a tutti i livelli.

Produrre dei contenuti informativi: una sfida non da poco

Torniamo all’inizio, alla verità dei fatti. Come possono svolgere i giornalisti il proprio compito, quando hanno la possibilità di farlo? La verità dei fatti può essere estratta soltanto da quel che si può ben definire, anche in campo giornalistico, infodemia, un neologismo che abbiamo imparato a conoscere nel racconto della pandemia. L’informazione sulla verità dei fatti va tirata fuori dall’enorme hub del flusso informativo alimentato dalle piattaforme digitali e informatiche. Contro l’infodemia, per il virus ci sarà la cura. Per il giornalismo dovrebbe esserci la separazione attenta dei fatti accertati dalla loro confezione. A prevalere oggi è invece il packaging informatico, nel quale è difficile distinguere tra percezione e realtà. E la percezione con la realtà, nel giornalismo, ha davvero poco a che fare.

Tanto più se, a prevalere (e oggi prevale sempre), è la profilazione dei destinatari della comunicazione (la quale, oltretutto, contiene sempre meno informazioni). Questi silos, nei quali siamo tutti infilati, determinano la cosiddetta “stanza dell’eco”, nella quale ci accontentiamo di sentire quel che ci piace sentirci dire. Sono silos confermativi che servono a produrre tribalismo identitario e polarizzazione politica. Personalmente, per descrivere questo processo, preferisco parlare di “gabbia di cristallo”, nella quale siamo indotti a rinchiuderci tutti quanti, anche i giornalisti.

La morale della favola è che la sconfitta dell’empirismo, perseguita dal potere monopolistico, è riuscita a cancellare il controllo che stampa, informazione e giornalismo dovrebbero esercitare. E, con la cancellazione dei fatti, muore l’inchiesta sul campo. Per difenderci da questi meccanismi e dai processi in atto bisogna tornare al punto di partenza: come possiamo produrre contenuti informativi? Il web ha dato a tutti, formalmente, la possibilità di scrivere e di esprimersi raggiungendo, teoricamente, confini illimitati, inimmaginabili fino a qualche lustro fa. Distinguere i fatti implica però che venga esercitato il mestiere che sa individuarli e proporli all’attenzione dei cittadini. Da questo punto di vista, le pareti di cristallo della “gabbia” (i nostri blog personali, account, profili, eccetera) sono diventati addirittura il modello prevalente per gli stessi grandi editori. Le “community”, attraverso le newsletter profilate e individualizzate, ne sono l’espressione crescente, pressoché generalizzata. Le pareti di cristallo, com’è ovvio, permettono di vedere gli altri e viceversa, se ci si sa muovere nel web, ma consentono solo di sentire la propria voce. Di riflesso abbiamo la conferma della nostra esistenza nella web sfera, mentre nella realtà ci siamo seduti davanti allo specchio di Narciso. Ci basta?

Il diritto d’accesso alla rete internet

Al commento di Ugo Mattei su come i tempi siano cambiati, al punto che una delle battaglie di Stefano Rodotà, introdurre l’art 21-bis della costituzione, per riconoscere l’accesso alla rete come diritto fondamentale, è ripresa oggi da Vittorio Colao, manager di Vodafone dal 2008 al 2018, e da febbraio 2021, Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale del governo Draghi, Fabrizio Arossa risponde che nel 2012, il consiglio delle NNUU sui diritti dell’uomo adotti, dichiarandoli diritti fondamentali, l’accesso a Internet e la libertà di espressione online. Questo testo, e la proposta di S. Rodotà, sono stati oggetto di consultazioni pubbliche in Italia, con i risultati pubblicati nel 2015 come la Dichiarazione dei diritti di Internet13. Il Consiglio d’Europa, da parte sua, ha pubblicato nel 2014 una Guida ai diritti umani per gli utenti di Internet14. Nel 2015, il Parlamento Europeo ha approvato il regolamento sulle misure riguardanti l’accesso a una Internet aperta15. Oggi in Italia è ancora in attesa di discussione l’introduzione di un art. 34 bis della Costituzione, sulla proposta di S. Rodotà.

Un decalogo per mantenere libertà e spirito critico nell’accesso e utilizzo della rete

Rispondendo a varie domande, Marta Pettolino, insiste sull’importanza della formazione, in particolare sull’analisi del testo, che sembra essere sempre più assente a tutti i livelli formativi. Per una cittadinanza più attiva propone il decalogo seguente:

1- Leggere la fonte: qual è la testata che ha pubblicato la notizia che sto leggendo e chi è il giornalista che scrive.

2 – Leggere la stessa notizia da un altro giornale di venduta opposta – non leggere sempre per confermare quello che già si pensa, ma leggere soprattutto chi la pensa diversamente. Questo è fondamentale per sviluppare il giusto senso critico e per la libertà di pensiero.

3 – Fare almeno una ricerca virtuosa al giorno

4 – Non scambiare il numero dei follower con l’autorevolezza del giornale o del giornalista.

5 – Diffidate da chi sa tutto, nessuno è un tuttologo. O fa finta o sa tutto in modo superficiale.

6 – Prendete le distanze da chi urla e usa un linguaggio violento.

7 – Leggete, guardate, ascoltate tanto, non vi fate un’opinione su una cosa sola che leggete.

8 – Non pretendete di avere un’opinione su tutto, a volte si fa miglior figura a dire io non lo so.

9 – Non giudicate le opinioni degli altri. In questa società in cui si vive tutto secondo una logica dicotomica, in o la pensi come me o sei contro di me, è sbagliato. La libertà di pensiero è anche libertà di scegliere e quella la dobbiamo garantire anche a chi la pensa diversamente da noi.

10 – La libertà è una conquista, ormai, e ci si avvicina un giorno alla volta, un passo alla volta, un articolo alla volta. Fate il vostro compito e non pensate che siano gli altri che debbano lottare anche per voi. Ognuno di noi può fare la propria parte.

E tu cosa farai da oggi per garantire a te stesso e agli altri la libertà che vuoi? È ora che tutti noi ci prendiamo le nostre responsabilità per avere un mondo più libero!

Ascoltare l’intelligenza dei cittadini, piuttosto che la tuttologia

Alla domanda del perché non creare una rubrica periodica e pedagogica per informare i cittadini sul come funziona la manipolazione, Edoardo Gagliardi risponde che c’è una grande letteratura sulla tematica che si alimenta quotidianamente, ma i cittadini ignorano come tecnicamente funziona il meccanismo. Riprendere le notizie e smontarle, potrebbe essere un modo per creare una cultura più attenta, la capacità e comprensione critica del come la manipolazione sia messa in atto. All’osservazione di un partecipante che il problema stia nella gente, Edoardo Gagliardi risponde che all’inizio della pandemia non si poteva scrivere un commento, al di fuori delle linee, che si veniva linciati. Oggi non è più così. Ma la questione è grave. Le persone assorbono le notizie: dal linciaggio social si può passare ad altre forme di linciaggio. Bisogna chiedere alle persone di auto-educarsi a recepire l’informazione in maniera critica, analizzandola. Ci vuole del tempo. Non è facile in una società in cui tutto scorre troppo veloce, ma è auspicabile. Sulla questione della tuttologia, il problema in Italia, in particolare in TV, è l’eccesso di tuttologi. Ognuno può esprimere la propria opinione, non si tratta di censura, ma di responsabilità. Per esempio, un virologo che zittisce una presentatrice perché non è competente in medicina, non si rende conto che lui stesso si è trasformato in intrattenitore, in esperto di comunicazione, etc. La tuttologia è una degenerazione alla quale bisogna stare attenti. Alla domanda di un partecipante su quanto sia difficile combattere questo potere faccia a faccia, perché ha dei mezzi potenti, Edoardo Gagliardi risponde che ByoBlu riceve molte mail dai cittadini con informazioni locali e suggerimenti di tematiche da trattare. È una forma di partecipazione al giornalismo. Essendo in pochi, è importante accogliere e sentire le voci dai territori, come tra l’altro ha indicato e fa Paolo Pantano. Chi è portatore d’iniziativa deve farla arrivare ai giornalisti. È nei territori che si possono attuare forme di resistenza e scalfire il potere. Bisogna trovare delle strategie. Dai cittadini può partire la reazione allo strapotere, al dominio. I big tech tendono ad appiattire le differenze locali: un’informazione deve arrivare a tutti senza distinzione. È indispensabile riscoprire le potenzialità dei cittadini che si uniscono a livello locale, nelle comunità, e poi allargano l’esperienza ad altre comunità, alla ricerca di complessità.

Creare strumenti pedagogici per i cittadini

Simona Bassano, fumettista suggerisce di creare un progetto di sensibilizzazione su queste tematiche, utilizzando competenze come le sue.

Ritornare ai professionisti dell’informazione per rendere la complessità accessibile a tutti

Alla domanda se c’è bisogno di ritornare ai professionisti dell’informazione, Igor Staglianò risponde affermativamente. La propria esperienza come reporter e inviato speciale, gli ha permesso di toccare molte realtà tematiche. Ora dirige un giornale digitale, ItaliaLibera.Online, totalmente indipendente, autoprodotto dai giornalisti che ci scrivono. Richiama l’attenzione sul tribalismo identitario e la polarizzazione politica, figli – come già detto – della costruzione dei “silos confermativi”, nati dalla profilazione degli utenti del web, che si rafforza attraverso la stessa ricerca online; durante la quale, con la stessa parola-chiave, le risposte ricevute dai motori di ricerca sono diverse a seconda del profilo dell’interpellante. E qui si determina il grande paradosso: nell’era della conoscenza il packaging informatico abbassa il livello della complessità del reale fino alla sua sostanziale scomparsa, nello stesso momento in cui è indispensabile sviluppare proprio lo spirito critico per coglierne la complessità.

Con il packaging informatico, trattato vieppiù dall’Intelligenza Artificiale, la divaricazione tra alto e basso si allarga. Ed invece è il professionista dell’informazione che può e deve operare le scelte riguardanti la verità dei fatti accertati, attraverso gli strumenti acquisiti con la preparazione e l’esperienza professionale. È l’esperienza che permette di fare una descrizione qualificata dei fatti accertati, analizzare il contesto, gli interessi in conflitto e le lotte di potere in corso, per far capire i fatti ai propri lettori, telespettatori o ascoltatori: ai cittadini. Non certamente il copia/incolla imperante nell’informazione mainstream. Questo tipo d’analisi, quando la si fa, è indirizzata al giorno d’oggi verso l’alto, verso chi possiede gli strumenti critici per capire e utilizzare le informazioni, e per comprarsela. Per tutti gli altri dilaga l’infotainment: pettegolezzi, gossip e influencer: copia/incolla, per l’appunto. In mezzo, ci sono poi quelli che autoproducono informazione confinata in blog, account e profili personali. In essi, ognuno produce per sé stesso, ricavandone, il più delle volte mera autogratificazione psicologica.

In sé, quella tra alto e basso, non è una divaricazione nuova. I fotoromanzi degli anni ’60 sono stati soppiantati dalle telenovelas degli anni ’80. Queste ultime sono state sostituite dalle storie di Instagram oggi. Non si tratta solo di passaggi linguistici ventennali. Sono anche, come ho provato a dire, cambiamenti contenutistici verso messaggi confermativi di autorappresentazioni, che ciascuno autoalimenta senza confronto e dialettica reciproca. Se conoscenza e creatività costituiscono il motore di ogni crescita sociale civile ed economica, con la loro scomparsa sparisce la consapevolezza della complessità del reale. E, dunque, siamo davanti alla premessa perfetta della riduzione finale del cittadino a esclusivo consumatore di una merce qualunque.

Uscire dall’indignazione da divano

Al commento di un partecipante, su come uscire dall’indignazione da divano e impedire che all’essere umano vengano prodotti i guasti che il capitalismo industriale ha prodotto sulla natura, Fabrizio Arossa risponde che siamo ancora in tempo, se lo compariamo alle risorse naturali, per le quali è iniziato un vero count-down. Se una diciassettenne, con la sindrome di asperger, ha messo al centro dell’attenzione mondiale e della mobilitazione giovanile il cambiamento climatico, allora si può fare. Come? Diffondendo consapevolezza anche con piccoli gesti. Usando motori di ricerca alternativi, che non profilano. Vivere senza Facebook. Uscire da News Feed (termine detestabile, ci nutriscono come le galline, con notizie decise da altri). Passare dalla consapevolezza alla mobilitazione sociale. Le piattaforme tengono al numero di utenti, che è il loro asset. Dunque, uscirne, è un passo importante, le aziende sono razionali, tengono al business. L’agenda politica deve mettere al centro l’educazione: ripartire dai bambini, che sono i nativi digitali per eccellenza: imparano prima lo scrolling che a girare le pagine dei libri. La possibilità d’informarsi con la rete è molto ampia, non bisogna cadere nelle nostalgie. La formazione deve usare gli strumenti informatici, altrimenti si crea la divaricazione tra programma scolastico, incentrato sui libri, e i dispositivi che i giovani utilizzano tutti i giorni. Lo spirito critico è necessario ma non sufficiente, come dice Igor Staglianò, va accompagnato da capacità critica e rigore. Bisogna dare un futuro a chi ha venti anni oggi: sarà limitato nella autonomia di pensiero, se non si limita l’estrazione di dati.

Limitazioni degli strumenti giuridici

Gli strumenti giuridici non sono sufficienti, né a proteggere il piccolo operatore dalle piattaforme né tanto meno l’autonomia individuale. Quelli esistenti sono stati ideati in un’epoca anteriore al digitale. Come dice la Zuboff, la natura senza precedenti di questo capitalismo ha consentito di eludere un controllo legale sistematico: le categorie legali classiche non arrivano a individuare aspetti chiavi di questo sistema. Ciò che è senza precedenti non può riflettersi in una disciplina esistente.

Profili giuridici da richiamare

Ci sono quattro profili giuridici che potrebbero evocarsi a tutela sia degli utenti che di operatori di piccole dimensioni:

1) la privacy;

2) il diritto consumeristico;

3) la responsabilità civile

4) l’antitrust.

Ciascuno ha dei limiti.

La privacy. La protezione dell’individuo rischia di ridursi ad uno schermo formale in cui si leggono frettolosamente le condizioni e i termini della privacy. Ma chi rinuncia ad accettare i cookies, sapendo che se non li accetta non riesce a navigare fino in fondo? Il rischio non è comunque limitato ai dati personali considerati in sé, ma si estende all’autonomia umana. La domanda di Marta Pettolino “chi decide per me?” non trova ovviamente risposta nel diritto alla privacy.

La protezione dei consumatori. Il diritto comunitario protegge i consumatori, se comperano servizi o merci. Ma gli utenti non sono clienti in senso classico, anzi accedono a servizi che sono fintamente gratuiti. Sono il prodotto. I clienti sono semmai le imprese. Quindi è difficile invocare il divieto di pratiche commerciali scorrette. Inoltre, non si protegge con ciò lo spirito critico.

La responsabilità civile. Sentenze in vari paesi affrontano la protezione del piccolo operatore, rispetto alle piattaforme. Altre sentenze affermano che è il giudice e non i gestori a stabilire i limiti tra il lecito e libertà di espressione, e decidere su condotte restrittive o apologetiche. Siamo agli albori, e sono dei piccoli segnali, non si può fermare l’oceano con un secchiello. Sulla responsabilità delle piattaforme, dei providers, senza un chiaro scudo, non ci sono regole sui contenuti.

L’antitrust è il più interessante, ma ha dei limiti. La figura dell’abuso di posizione dominante richiede la determinazione del mercato rilevante e l’accertamento della dominanza dell’operatore. Se questo test si supera, ciò che non è facile, s’impone la speciale responsabilità dell’impresa in posizione dominante. Per esempio, che l’operatore dominante non discrimini, che non applichi ai suoi clienti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti. È facile applicarlo in caso di vendita di prodotti o servizi, ma come procedere ad applicarlo alla trasmissione di contenuti, che non sono merce? Cosa succede se la piattaforma li rimuove perché ritiene falsi, divisivi o pericolosi? Il diritto della concorrenza non è sufficientemente attrezzato per affrontare questi casi, e neppure la figura tutta italiana della dipendenza economica. Per di più, i rimedi dell’antitrust non sono conclusivi. Anche quando si arrivasse a scindere un colosso big tech, non si può escludere che se ne creino altri.

Le novità normative. Sono le proposte di regolamento della Commissione Europea, sui servizi e mercati digitali, non ancora in atto. Sono interessanti anche se rappresentano il classico approccio comunitario. Tra gli aspetti più interessanti ci sono gli obblighi per le piattaforme di:

  1. informare della rimozione di contenuti e di mettere a disposizione rimedi giurisdizionali anche nel paese dell’operatore e dell’utente per contestare la rimozione. Il contro peso è che si rafforza l’esonero di responsabilità delle piattaforme e dei service-provider per gli illeciti degli utenti, a meno di esserne consapevole o di non attivarsi per eliminarli.

  2. rendere trasparenti i termini e condizioni contrattuali, dotarsi di sistemi di controllo per valutare e mitigare i rischi anche rispetto ai diritti fondamentali degli utenti.

  3. consentire l’accesso ai dati di ricercatori qualificati per valutare e mitigare i rischi, anche riguardanti le libertà fondamentali.

  4. empowerment del cittadino, quindi proposizioni che affrontano il tema dell’inconsapevolezza nel modo di profilare i dati, generare contenuto e manipolare le raccomandazioni, l’abuso di pubblicità mirate, la disinformazione.

In sintesi: trasparenza nei contenuti, doveri informativi rispetto alla pubblicità mirata, compreso il come e perché si è bersagliati; trasparenza degli algoritmi che raccomandano e diritto dell’utente di uscire da raccomandazioni formulate in base alla profilazione; proibizione di pratiche scorrette; facilità di cambiamento di piattaforma; aumento di supervisione della Commissione sulle piattaforme; impedimento ai gatekeepers di discriminare a vantaggio dei propri servizi, anche nella graduatoria del rating: il tutto in un contesto in cui si cerca di favorire l’ingresso di nuovi soggetti, anche più piccoli, senza che siano discriminati da termini commerciali sbilanciati, diminuendo i costi per i piccoli operatori. Ci sono delle penalità pesanti, anche 10% del fatturato totale, per le piattaforme che non rispettano le regole. Prima di arrivare al regolamento, il 97% dei partecipanti ad una consultazione pubblica ha chiesto d’aumentare la trasparenza sugli algoritmi e di poter uscire da questo sistema.

Altre prospettive. In Social Dilemma, gli ex-fondatori di big tech propongono di allineare gli incentivi finanziari, non tanto di tassare i profitti, ma i data-assets, cioè il patrimonio di dati che vengono estratti e utilizzati per costruire modelli predittivi ed estrarre plusvalore comportamentale. Dalla transizione ecologica si deve passare alla transizione digitale per la protezione dell’essere umano e, quindi, stabilire un parallelismo con gli strumenti che vengono utilizzati nel cambiamento climatico e la lotta alla modifica dei modelli comportamentali, con incentivi fiscali e di altro genere. Poi, ripensare gli strumenti dell’antitrust e della regolamentazione. Se le piattaforme digitali sono essential-facilities, cioè delle infrastrutture importanti, devono essere messe a disposizione di tutti senza discriminazione, sotto il controllo di un regolatore (che stabilisce le tariffe e le modalità di accesso), anche privato, ma soggetto al rispetto dei contenuti da pubblicare e nell’uso dei dati. Bisogna cambiare il focus nel beneficio del consumatore, previsto nella protezione della concorrenza, alla protezione dell’autonomia dell’essere umano e dei diritti fondamentali.

Altre sfide

Alla domanda sull’integrazione tra lettori, giornalisti e editori, e soprattutto sul ritorno al volantinaggio come strumento per diffondere l’informazione, escludendo quindi la logica social, Marta Pettolino risponde che non si può tornare indietro, ma si può andare avanti. Le piattaforme sono uno strumento e come tale va usato. Conoscerle ci permette anche di raggiungere pubblici impensabili fino a poco tempo fa e diffondere contenuti importanti. Come sempre la conoscenza fa la differenza. I lettori devono fare una parte attiva e sfruttare i social per aumentare il tasso di penetrazione di argomenti virtuosi.

Alla posizione che sia meno performante leggere sul tablet che sulla carta stampate, Edoardo Gagliardi risponde che il problema è l’educazione dell’utente che approccia questi mezzi. In Italia tra i siti più visitati ci sono quelli a carattere pornografico, quindi il problema è il tipo di utilizzo che si fa delle tecnologie. La rete offre potenzialità per la trasmissione di sapere e cultura, bisogna che il cittadino si educhi a raggiungere i contenuti in modo intelligente. Sulla professionalità del giornalista, sollevata da Igor Staglianò, bisogna stare attenti a chi deciderà su queste professionalità. Al potere ci sono delle persone imbevute dal sistema e che in futuro potranno decidere chi sono i professionisti e chi no.

Gilda Farrell

1 Big Giants, è il nome dato alle 5 imprese dominanti nell’industria della tecnologia dell’informazione negli USA: Amazon, Apple, Facebook, Google e Microsoft. Certi includono pure Netflix.

2 Il valore di queste cinque imprese fa concorrenza alla ricchezza di molti stati e i suoi fondatori hanno creato delle fortune personali mai viste nella storia dell’umanità. Vedere: https://www.theguardian.com/business/2021/feb/06/is-big-tech-now-just-too-big-to-stomach

3 Con una legge di febbraio 2021 i due giganti sono stati obbligati a negoziare e pagare per la pubblicità prodotta per i giornali locali e utilizzata da loro per attirare clienti; inoltre dovranno investire in pubblicità su prodotti locali. La legge comporta pure restrizioni sull’uso esclusivo dei dati personali. Un braccio di ferro si è istallato tra i due giganti e il governo, che hanno ottenuto emendamenti nella legge. https://www.bbc.com/news/world-australia-56163550

4Edizione originale nel 2009. Edizione italiana, Università Bocconi Edizioni 2014

5https://www.ted.com/talks/eli_pariser_beware_online_filter_bubbles?language=it

6bubble democracy: indebolimento dell’identificazione coi partiti, ulteriore calo della fiducia nella classe politica, ma invece di apatia e astensione, spinta alla polarizzazione, frammentazione del pubblico, riduzione delle barriere di accesso al mercato politico.

7 https://it.wikipedia.org/wiki/Il_capitalismo_della_sorveglianza

8https://www.human-technology-foundation.org/about

9 https://media-innovation.news/media-lab/inject-a-european-journalism-and-technology-project-building-creativity-tools-for-journalists/#:~:text=The%20INJECT%20project%20unites%2014,crucial%20role%20in%20open%20societies.

10 https://it.wikipedia.org/wiki/Tullio_De_Mauro

11 https://www.byoblu.com/

12 SEO significa Search Engine Optimization. Sono l’insieme di attività volte a migliorare la scansione, l’indicizzazione ed il posizionamento di un contenuto presente in un sito web, da parte dei crawler (detti anche bot) dei motori di ricerca, al fine di migliorare il posizionamento nelle SERP (pagine di risposta alle interrogazioni degli utenti del web

13 https://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg17/commissione_internet/dichiarazione_dei_diritti_internet_pubblicata.pdf

14https://rm.coe.int/16804d3cb9

15https://op.europa.eu/it/publication-detail/-/publication/8fdf5d08-93fc-11e5-983e-01aa75ed71a1

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  1. Denis 13 Giugno 2021 at 17:56 - Reply

    Ottimo, esaustivo, di grande spessore culturale, sociale, etico, umano. In un mondo dove il potere con tutte le sue articolazioni mercenarie e servili, mediante l’imposizione sempre più prepotente e sfacciata di un pensiero unico, vuole cancellare ogni forma dialettica, del buon senso, ogni elemento residuale del diritto naturale per sdoganare follia pura assunta a senso comune, quento egregiamente scrivete é oggigeno.

  2. ines tenenti 13 Giugno 2021 at 23:09 - Reply

    Non ho ancora letto tutto cio che è scritto ,per motivo che ho problemi agli occhi ,comunque gli articoli letti, sono d’accordo che pochi ascoltano i video o leggono articoli,io su fb informo cerco ,perche fb mi crea mille problemi comunque mi fa sorridere e dialogo con loro,ascolto molti video prima di condividerli anche molto lunghi un’ora e mezza e anche piu ,non credo che una volta inviati siano ascoltati.Comunque io cercherei una via alternativa,perche esseno di privati e cosi imponenti,non cercano di dare cultura ,ma solo fare soldi e ,secondo me ,la digitalizzazione dovrebbe essere limitata ,non sono d’accordo ne cercare regole,perche continuera sempre di piu , se una cosa non fa il bene si dovrebbe evitare .a tutto deve avere un limite .Poi lamentarsi di loro ,mi fa sorridere,e come se venissero in casa mia degli amici e pretendessero di decidere quel che e giusto che io facessi,e inutile lamentarsi di questi colossi e continuare ad usarli,secondo me vanno ridimensionati

  3. ines tenenti 14 Giugno 2021 at 22:01 - Reply

    Questi colossi mi fanno cosi per dire ,sorridere ,perche????perche ci trattano da bambini,se fai questo ti punisco e non ti faccio commentare per una settimana,..ti tolgo il gioco e cosi ti stai calmo,cosi come le mamme che tolgono il giocattolo ai figli se sono stati ………sono da ridimensionare,usandoli il meno possibile,perche se non ci siamo noi ,che fanno?????chiudono??? noi siamo i loro clienti,se una cosa non va,non la uso piu o non la compero piu ,loro hanno bisogno di noi e non il contrario

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