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Il tempo per curare i territori non è infinito

Alberto Magnaghi interroga: abbiamo un tempo infinito per curare i territori, salvare l’ambiente dell’uomo e ricostituire le autonomie locali? Domanda difficile, che dobbiamo porci, data l’accelerazione della crisi ambientale del pianeta, della biosfera e anche della globalizzazione economica. Sebbene si continui a proporre Pechino come capitale mondiale (città stato, mega-city, mega-regione) di 140 milioni di abitanti, questa prospettiva significa gestione iper-tecnocratica/ipertecnologica dell’urbanizzazione globale del pianeta con abitanti inesistenti, polverizzati, individualizzati come clienti e consumatori. Ora, il tempo infinito non c’è. La crisi globale si accelera e noi dobbiamo trattare dei temi a cui dedicare la cura collettiva in tempi non millenaristici: concretizzare il rapporto tra territorio ed autonomie locali, per costruire forme di autogoverno comunitario è il titolo di questo Forum. Purtroppo, non siamo sulla buona strada. Quelle che sono definite autonomie locali, come i governi locali, sono lontane perché dipendenti, nella maggior parte dei casi, da poteri sovranazionali o nazionali (economici e partitici) , dunque poco “autonome” per rispondere alla domanda sociale che viene dal territorio, sulla qualità dell’abitare e il benessere sociale; ma anche la capacità di produrre istituzioni autonome locali, forme di autorganizzazione delle società locali, è molto debole, proprio per la asimmetria fra crescita diffusa delle esperienze di autorganizzazione dal basso e lontananza delle istituzioni.

Senza ricostruire la figura dell’abitante, la cura dei territori è impresa impossibile 

Il mio tema riguarda la cura del patrimonio territoriale verso nuove forme di democrazia comunitaria. È curioso, questo tema del territorio comincia a venir fuori in modo più allargato di come è trattato nei nostri circoli di territorialisti. 

Un esempio. Durante la pandemia i giornali hanno gridato territorio, territorio, medicina territoriale! Cosa significa questo coro? Cosa si è fatto mentre molti di noi hanno combattuto – nel silenzio generale – contro l’edificazione di mega ospedali nei prati? Fuori dalle città si sono costruite megastrutture iper-specializzate, per cui tutti devono fare chilometri per accedervi, anche per problemi di cura banali e quotidiani, di pronto soccorso o di medicina preventiva. Quando poi scoppia un evento come la pandemia, tutti si ricordano del territorio, cioè del bisogno di avere un’organizzazione della salute in grado di affrontare i problemi all’interno dei luoghi di vita. L’esempio è interessante perché mentre viviamo un’accelerazione di crisi ecologica terribile che comporterà accelerazioni di disastri, di migrazioni, di profughi ambientali, ci troviamo di fronte a territori incapaci di resistere, con abitanti inesistenti. Cosa intendo con questo? Per me la figura dell’abitante – che è stata sostituita da quella di consumatore, cliente e acquirente di servizi e merci, ignaro dalla provenienza della luce, del cibo, dell’acqua, delle informazioni etc., – è quella che faticosamente tentiamo di ricostituire, proprio tornando al territorio. Questo vuol dire, tornare alla capacità della sua cura, ai suoi saperi contestuali ed esperti di riproduzione del suo patrimonio come bene comune. Quindi la prima domanda da porsi è: cosa è il territorio? 

 In primo luogo va riaffermata la sua  accezione politica, cioè l’aggregazione di soggetti che solidariamente organizzano la propria vita, ovvero la sua definizione di  comunità concreta, in grado di produrre forme di democrazia comunitaria e di commoning, di relazioni tra persone che superano l’individualismo e l’isolamento che la città digitale e la globalizzazione hanno creato; questa è la prima condizione per produrre nuova ricchezza autosostenibile fondata sulla messa in valore del patrimonio territoriale come bene comune e  una nuova capacità di risposta agli eventi eco-socio-catastrofici ai quali andiamo incontro. 

Il territorio è il prodotto della coevoluzione fra insediamenti umani e natura

Ma, oltre a una comunità politica concreta di autogoverno locale, il territorio è anzitutto qualcosa di fisico, di materiale, di vivente, è un prodotto di una coevoluzione di lunga durata tra insediamento umano e natura, ambiente e altre specie viventi. Coevoluzione che è avvenuta in tutte le civilizzazioni, nonostante i conflitti, le guerre, etc. Il territorio è figlio di questa fecondazione tra insediamento umano e natura. Essa ha prodotto neo-ecosistemi viventi ad alta complessità, una nuova crosta terrestre, nata da questa relazione, costituita da città e dai loro metabolismi, reti di città, sistemi agroforestali, infrastrutture, fiumi e riviere abitate, colline terrazzate e così via.  Il territorio che oggi calpestiamo, il suo paesaggio, è stato costruito nei secoli, da generazioni che hanno stabilito regole, creato equilibri, saper, paesaggi e forme di riproduzione e di convivenza con la natura, creando le differenze e le peculiarità che ne definiscono i caratteri specifici, le qualità, i valori e le potenziali risorse per la produzione di nuove forme di ricchezza autosostenibili.

Il patrimonio territoriale va interpretato come bene comune dei luoghi di vita degli abitanti

I territori custodiscono dunque regole, statuti, saperi, della loro riproduzione e trasformazione nella lunga durata. Il patrimonio territoriale è l’espressione, se sappiamo ben vedere, di questo grande processo di coevoluzione. Un processo storico dove il patrimonio non è separato dal resto della vita. Nella nostra civilizzazione questo patrimonio è ridotto alla tutela dei monumenti, dei paesaggi eccellenti, delle chiese, dei centri storici, dei piccoli borghi. Un tale patrimonio eccellente vive in territori oggi sottoposti quotidianamente alle libere leggi dell’economia. Ci salverà tutelare alcuni pezzetti di territorio dal disastro che l’economia fa sul resto del territorio? Credo di no. Recentemente, con la Convenzione Europea del Paesaggio, abbiamo acquisito un’altra concezione del territorio, che mette il paesaggio al centro della qualità della vita della popolazione. Nell’art 1 “paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni. Questa frase significa che non pensiamo più il patrimonio territoriale come luogo di eccellenza separato dai luoghi della vita quotidiana. Ma lo interpretiamo a partire dalla valutazione della qualità luoghi di vita della popolazione, in primis delle periferie urbane. 

Questa è una rivoluzione concettuale. Perché se devo porre il problema della qualità di un monumento, di una chiesa o di un bel paesaggio, metto dei vincoli. Se invece devo occuparmi della qualità dei luoghi di vita della popolazione, il problema è un altro. Intanto si deve definire cos’è quel paesaggio per la popolazione, quindi avere strumenti per farla esprimere sul proprio ambiente di vita. Poi si devono trovare altri strumenti per rilevarne la qualità; di solito, quelli che esistono sono abbastanza disastrati.  Quindi, anche nel settore dei beni culturali e paesaggistici la questione cambia. Mi sono occupato di piani paesaggistici di nuova generazione, come quello della Puglia e della Toscana, dove il Codice dei beni paesaggistici e culturali (2004) mi chiedeva di fare un piano di tutto il territorio regionale. Così è stato. Ma è profondamente diverso che fare un piano per salvaguardare i beni culturali e paesaggistici di eccellenza. In questo caso è in ballo la qualità paesaggistica e territoriale dell’intero territorio regionale, che non si può trattare con vincoli ma con buone regole di trasformazione condivise. Questo passaggio non va dimenticato, perché allora il concetto di patrimonio territoriale diventa il concetto del territorio di vita della popolazione e della complessità. Non un suolo qualunque da coprire di oggetti e funzioni, ma qualcosa di vivente, prodotto dalla cultura, dalla storia

Il percorso di crescita della coscienza dei luoghi

Il percorso di ciò che abbiamo chiamato crescita della coscienza di luogo, è la ricostruzione della figura dell’abitante attraverso la sua ripresa di possesso di questa cultura profonda di secoli, della capacità di rileggerne l’evoluzione, le regole positive, i valori, i beni materiali e immateriali prodotti. Quindi, quando parliamo di “territorio bene comune “dobbiamo tener presente queste premesse. Perché territorio bene comune può significare qualsiasi cosa se non chiariamo che si tratta di questo immenso giacimento di ricchezza che deve essere percepito attraverso la ricerca, lo studio (saperi esperti), la sperimentazione (saperi contestuali). Molte volte, la coscienza dei luoghi cresce attraverso le vertenze, le lotte. Pensate alla Val Bormida in Piemonte (Langhe) dove una impresa chimica inquinante (Acna), ha chiuso dopo dieci anni di lotte. Pensate alla Val di Susa, che sta ancora lottando. Attraverso le lotte collettive degli abitanti/produttori succede che quel territorio dimenticato dalla società, perché l’industrializzazione ha piazzato una fabbrica che ha prodotto inquinamento, morte ed emigrazione, riemerge nella consapevolezza comunitaria; per lungo tempo le culture tradizionali sono state viste come fardelli di un passato di povertà agricola piuttosto che come prodotti del luogo perché non davano più lavoro, né da mangiare. La cosiddetta rivoluzione industriale, portando nelle valli sperdute il mito della fabbrica e del salario ha creato la rivoluzione della percezione del paesaggio: questo è sparito dai territori che sono stati sepolti, dove tutto si è risolto nel rapporto di lavoro salariato, economico. E quindi, la rinascita del territorio, a partire dalla ricostruzione di un sapere e da una relazione con questo patrimonio immenso, non è facile perché veniamo da una espropriazione delle persone dalle loro conoscenze, dal loro rapporto comunitario, ma anche fisico col territorio. Come ho detto, nessuno sa da dove arriva la luce, il pane, la farina, l’80% di ciò che mangiamo. Quindi la ricostruzione dei cicli, delle filiere corte, dell’organizzazione del rapporto tra architettura, cibo e città, sono cose materiali indispensabili per ricostituire la figura di abitante, che ora non c’è. Altrimenti, non si può parlare di bene comune, perché siamo di fronte ad un’ignoranza generalizzata di cosa significhi trattare il territorio nel suo vero senso, come ricchezza, come potenziale produttore di ricchezza contro le merci che vengono da lontano, come luogo dove i saperi locali e le capacità di riproduzione della vita ma anche di difesa, di resistenza alla crisi ecologica. Senza questo percorso di riappropriazione della vita attraverso la capacità di riprodursi collettivamente ricostruendo i luoghi di vita e di lavoro espropriati, non si può parlare di bene comune. Perché è un bene estraneo, calpestato, travolto dalle fabbriche, che non si vede più: la preziosità è sparita.  Questo è il territorio. 

Riappropriarsi dei saperi contestuali: fare della politica

Affrontare la questione di territorio come bene comune, implica la capacità di interpretazione collettiva dei paesaggi che ora calpestiamo, delle regole, statuti e conoscenze dei luoghi; quindi, riappropriazione di saperi contestuali. Questo processo rieducativo deve percorrere tutte le esperienze. Parlo non di astrazioni, ma di esperienze che ho praticato nei territori. Si tratta di un percorso che è ovviamente politico. Ma di quale politica? Non quella delle nostre istituzioni, ma della politica di riappropriazione dei saperi di mutuo soccorso, di cooperazione sociale ed etica, di costruzione di istituzioni locali promosse dagli abitanti, di comunità autonome, aumentando soprattutto le capacità di autoriproduzione della vita collettiva, allontanandosi man mano dai poteri globali sui consumatori e sui clienti delle multinazionali, che oggi reca morte ai territori.  Un essere vivente è evidente che può morire, si ammala e muore. I nostri territori sono in una fase di avanzata malattia della propria capacità riproduttiva, accentuata dalla crisi ecologica del pianeta. Comunque, le esperienze che stiamo vivendo, le reti, le nuove forme di mutuo soccorso e cooperazione, i modelli confederali, come molte esperienze dell’America Latina, ma anche da noi, la crescita di forme di comunità, i movimenti di cooperazione sanitaria, di salute integrata, i gruppi di acquisto, le reti cote di produzione e consumo, le cooperative di comunità, le cooperative artigiane e edilizie, le comunità energetiche, i patti città-campagna ecc.  vanno nella direzione della cura del patrimonio, creano legami che ci portano verso la riappropriazione collettiva dei beni comuni territoriali. Questa è una strada lunga, difficile, complessa. Questi percorsi devono riconoscere che il patrimonio non è cosa attuale, Devono riconoscerne la potenza storica, dell’umanità di lunga durata che l’ha costruito. La nostra cultura industriale ha prodotto disastri, ma precedentemente tante meraviglie di ricchezza sono state costruite, che oggi possiamo recuperare con processi di “retro-innovazione”, avendo l’intelligenza patrimoniale, riconoscendo il territorio come bene comune dell’umanità, che ha un tempo più lungo di una generazione, e che possiamo per l’appunto Tramandare. Tale conoscenza-coscienza va immersa in tutte le esperienze, perché altrimenti si pensa di poter costruire un’alternativa di gestione autonoma del proprio territorio con le stesse regole della società che viviamo. È chiaro che fallisce. Fallisce se non si capisce che le erbe selvatiche abbandonate ai piedi di una montagna possono trasformarsi in nuova cucina fatta con prodotti locali, che i raccoglitori sono delle persone importanti! Questo movimento, del quale facciamo parte, che si sta verificando in Italia in modo allargato, ha una importanza notevole nell’affermare il processo di autonomia delle popolazioni locali, prima ancora di condizionare le istituzioni locali a cambiare rotta, rispetto all’essere strumenti di politiche globali e diventare supporto della ricostruzione della comunità locali. Costruisce dunque consapevolezza e coscienza che una trasformazione del territorio in bene comune è un processo che vede aspetti politici, urbanistici, geografici, estetici, paesaggistici, che vanno fatti interagire per produrre il risultato desiderato. 

Il concetto dei beni comuni racchiude quello della responsabilità diffusa

Per Elena Carletti, sindaco di Novellara, è importante ricuperare il senso d’essere abitante, diverso dall’essere consumatore. Il concetto di bene comune racchiude anche l’idea di responsabilità della cittadinanza, degli abitanti, di ogni singolo, che rispetto alla cura, tutela e valorizzazione dei beni comuni, ovviamente deve mobilitarsi. Noi sindaci non abbiamo soltanto il compito di amministrare, ma anche quello di far passare il concetto di responsabilità diffusa, superando il senso della delega. Purtroppo, viviamo un tempo in cui si delega ad altri la responsabilità di fare, progettare, curare, diffondendo una cultura di deresponsabilizzazione. Non ci si sente responsabili perché si è delegata questa funzione a chi amministra, a chi è responsabile della salute, della sicurezza, alle forze dell’ordine. Se osserviamo i dibattiti a livello locale, il tema della responsabilità è sempre centrale. Ad ogni frangente della nostra vita c’è sempre il bisogno d’individuazione della responsabilità: è sempre altrove. Mi ha colpito una frase di un giornalista che sottolineava: sono Stato io, quindi, io sono lo Stato. Perciò, sono responsabile degli accadimenti e di ciò che avviene attorno. Da Sindaco voglio sottolinearlo. Certamente nell’evoluzione per ritrovare un concetto vero di abitante, le responsabilità che implicano abitare un luogo, un territorio, una comunità, contano. Nel concetto di bene comune, oltre al tema del patrimonio materiale, bisogna affiancare quello del patrimonio immateriale: i valori, le relazioni, la socialità. Una delle domande chiave del nostro tempo è come possiamo stare insieme, coesistere in società che si sono rese più complesse, più articolate, più ricche di culture, di valori diversi? Accanto al concetto di abitante e di bene comune, c’è la responsabilità di stare insieme. Come la vogliamo interpretare, prendercene cura?

La pratica della sussidiarietà induce alla sperimentazione e alla solidarietà 

In questi ultimi anni, si sono sviluppate tante iniziative volte a recuperare il contenuto dell’articolo 118, 4 della Costituzione sulla sussidiarietà; sul fatto che le amministrazioni pubbliche devono favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento d’attività d’interesse generale. Su questa base, negli ultimi anni, c’è stato un grande sforzo di molti Comuni – come quelli appartenenti all’associazioni Comuni Virtuosi, della quale sono Presidente – che raggruppa piccole realtà che sulla collaborazione con i cittadini e sulla tutela del patrimonio come bene comune ha sostanzialmente fondato il proprio obbiettivo. Mi fa piacere sottolineare quanti Comuni sono impegnati in prima linea, alla luce della domanda, come dobbiamo stare insieme, tutelando l’ambiente che ci circonda e le relazioni che ci uniscono. Questi comuni sono in una forma di trincea, di presidio permanente per garantire delle sperimentazioni pratiche nel campo dello stare insieme. Non dico neanche dell’amministrare, perché stare insieme implica delle responsabilità diffuse e il superamento della delega, senza negare che chi si candita ha delle responsabilità e deve amministrare. Ma nell’amministrare, occorre favorire una crescita generale delle comunità, proprio per favorire il senso della responsabilità diffusa sulla cura dello stare insieme, dei beni comuni. Quelli materiali sono importanti, ma ci devono stare a cuore quelli immateriali. La pandemia ci ha indotto a pensare in questo senso. E in qualche modo, le stesse norme che abbiamo seguito e rispettato da un anno a questa parte, sono state in realtà un grande progetto comune, di bene comune, nel quale ogni persona ha avuto la possibilità di svolgere un ruolo, con la propria responsabilità, in uno schema globale. Abbiamo dunque riflettuto e maturato il concetto di bene comune. Tra l’altro, oltre alle norme che tutti sono stati invitati a rispettare, ci sono state azioni di grandissima solidarietà. Questo periodo ci ha cambiato, non siamo di fronte ad uno spartiacque epocale, ma è bene sottolineare la crescita della consapevolezza di un bene più grande, di un bene comune. Molti cittadini hanno pensato di poter contribuire, come tutte le attività di volontariato articolate in mille forme: dal sostegno alle frange più fragili della popolazione distribuendo beni, dispositivi, libri, all’affermazione della cultura della solidarietà. La pandemia ci ha aiutato a visualizzare realtà che prima non avevamo modo di far emergere. Aldilà di quest’esperienza, che ha messo in evidenza buone pratiche e fenomeni che andranno valorizzati, sulla strada dei beni comuni, tante amministrazioni, come Novellara, hanno iniziato a lavorare prima, dotandosi di forme di regolamenti per coinvolgere i cittadini nella condivisione della responsabilità della loro cura. Tanti sono gli esempi, come la cura dei beni pubblici, parchi, aree verdi, luoghi abbandonati, ma pure la cura di beni comuni immateriali, come il benessere di piccole comunità. Molti cittadini mettono la propria responsabilità al servizio di agevolare la crescita di piccole associazioni, interventi sull’arte e la bellezza, organizzazione di eventi. Il concetto di bene comune si articola così in una infinità di modi.  Rappresento una comunità di 13.500 abitanti, che negli ultimi anni ha costituito 100 associazioni di volontariato culturale, sociale, sportivo e quindi dimostrato che una comunità può stare al fianco degli amministratori per prendersi cura dello stare bene complessivo. 

Recuperare esempi del passato per rendere meno regolamentata la partecipazione dei cittadini ai beni comuni 

Voglio fare degli esempi pratici perché nei tempi che viviamo vedo dei fenomeni particolari. Il tema dei beni comuni che cerchiamo di regolamentare anche con l’accesso dei cittadini alla pubblica amministrazione è, in realtà, un tema antico. Pensiamo alla sicurezza, che ha dato luogo ad una vera e propria economia della sicurezza. Alcuni anni fa, in un intervento a Mantova, Zygmunt Bauman parlava della crescita esponenziale dell’economia della sicurezza. Negli ultimi 20 anni, questo tema ha impostato tantissimi elementi del nostro vivere, come la difficoltà di un ente ad organizzare un evento, o la responsabilizzazione dei sindaci su certi fatti. Sulla sicurezza investiamo tantissime risorse. Ma, banalmente, un’espressione di organizzazione delle comunità locali sulla sicurezza ha il sapore antico, come i controlli di vicinato. Questi rappresentavano un modo collettivo di prendersi cura della sicurezza. Non era necessario avere una chat o un regolamento per prendersi cura gli uni degli altri, per comunicarsi fatti di importanza, segnalare persone che erano sospette o fuori contesto. Ciò che oggi organizziamo come esempio di assoluta novità, succedeva in modo spontaneo, come scambiarsi le chiavi di casa tra vicini, in uno schema di solidarietà e fiducia reciproca. Un altro esempio. A Novellara abbiamo riqualificato un parco, tipico intervento di amministrazione pubblica, realizzato 40 anni fa dai cittadini residenti in quel quartiere. Questi, accanto alle cooperative che facevano nascere il quartiere, decisero di bonificare le zone verdi non curate, facendole diventare uno dei primi parchi moderni della nostra città. All’epoca non c’era bisogno di regolamenti, d’invitare i cittadini ad un protagonismo. Esisteva una spontaneità, determinata forse dal fatto che si viveva in un contesto dove le responsabilità non erano normate. Stiamo cercando di ritornare a quei tempi. Tempi di cittadini responsabili che possono dare un contributo alle proprie comunità con la gestione di spazi comuni materiali (parchi, aree degradate), ricordando però d’insistere sui beni comuni immateriali. Recuperare questi esempi del passato ci porta a riflettere sul senso delle relazioni.

Rispondendo alla critica, scritta nella chat, che il distanziamento durante la pandemia significa dover ubbidire ciecamente agli ordini, l’opinione di Elena Carletti è che ognuno ha pensato di poter interpretare un ruolo per tutelare la salute e il benessere – anche psicologico – di tutti, beni comuni fondamentali. La pandemia ha permesso di valorizzare questi contributi, non come forma di obbedienza ma di corresponsabilità.

Incidere con la ricerca-azione nella trasformazione dei territori in beni comuni 

Giusy Pappalardo condivide degli spunti e i nodi critici che nascono dall’esperienza e dalla pratica, ormai decennale, di ricerca con un gruppo di persone sia appartenenti al Laboratorio per la progettazione ecologica e ambientale del territorio, dell’Università di Catania, sia soggetti indipendenti dal mondo accademico. I nodi critici rilevati proprio nel merito dell’attuale sistema di governo del territorio, appaiono quando ci si colloca nella prospettiva di costruire il territorio come bene comune. Si tratta pure di comprendere le finestre di opportunità che si aprono dal pullulare di pratiche che permettono d’intravedere margini di manovra per una trasformazione, sebbene si parli di un’esperienza ancora di nicchia, nel contesto della Sicilia. Ne esistono sempre di più, ma hanno bisogno d’allargarsi per declinare concretamente il concetto di cura del territorio, di crescita della coscienza di luogo.

Il lavoro è portato avanti con un po’ di fatica perché come diceva A. Magnaghi, il tempo non è infinito e sulle spalle di chi è investito, si sente l’urgenza d’agire e trasformare la realtà. Questo mentre si prova a produrre avanzamento della conoscenza scientifica, utilizzando l’approccio della ricerca-azione, cioè integrando soggetti fuori dalle mura accademiche. In questo quadro, chi si pone le domande di ricerca non è un soggetto singolo (un ricercatore), ma un soggetto plurale, costituito da una comunità di co-ricercatori accademici e no. Il processo avanza in una serie di fasi, lungo le quali nascono delle domande collettive sulla possibile trasformazione, anche se imperfetta. Sono indispensabili le fasi di riflessione e di rimodulazione dell’azione, riprendendo alcuni concetti cari al dibattito disciplinare sul “reframing” introdotto da Donald Schön e altri alcuni anni fa. Cioè guardare criticamente all’azione per eventualmente correggerla, provando a concretizzare le dichiarazioni di principi, che negli anni sono state condivise e dibattute.  Ragionare su questo processo è fondamentale, così come lo è sulla contaminazione tra saperi e conoscenze. Questo perché il concetto di territorio bene comune impone di ragionare sulla co-produzione della conoscenza territoriale, che non può rimanere imbrigliata dentro vecchi meccanismi settoriali, per diventare transdisciplinare. Il territorio, per la complessità di questioni che suscita, impone di uscire dagli steccati disciplinari consolidati e contaminare le forme di produzione della conoscenza e della progettazione. Avendo seguito l’esperienza del Forum Tramandare, anche questo è un esempio del bisogno di abbattere gli steccati disciplinari e andare oltre il mondo della ricerca e dell’accademia. Ricerca-azione e approcci transdisciplinari sono così alla base dei ragionamenti presentati. 

Coscienza di luogo, abitante solidale e restituzione del patto costituente della democrazia locale tra abitanti e istituzioni: tre pilastri dei territori beni comuni

Rispetto alla crescita della coscienza di luogo e il recupero della dimensione solidale tra abitanti, penso che sia importante ragionare sul come rinsaldare l’esercizio della democrazia locale. Cioè come questi percorsi si traducono in un’interazione positiva con le istituzioni pubbliche, e con le persone che integrano la macchina amministrativa, e rappresentano un importante tassello del discorso. In questo senso è bene domandarsi se l’esperienza presentata da Elena Carletti sia un’esperienza di nicchia e cosa succede fuori da queste nicchie. 

Nella realtà siciliana si registra, oltre un disfacimento delle relazioni territoriali tra abitanti, dovuto al neoliberismo e alla globalizzazione omologante, anche un disfacimento del sentirsi parte di una comunità territoriale che riesce ad esprimere una relazione costruttiva sia col proprio ambiente di vita, sia con le istituzioni pubbliche. In questo contesto bisogna lavorare con costanza per restituire il patto costituente della democrazia locale tra abitante e istituzioni pubbliche. Questo sta avvenendo a livello nazionale ma anche locale, grazie a forme associative, organizzazioni di volontariato, del Terzo Settore, forme cooperative che oggi sostituiscono il ruolo dei partiti. Tutto questo però non riesce ad incidere sul dare attuazione al principio di sussidiarietà, sul quale si fondano molte delle discussioni e sperimentazioni, avanzate anche da Labsus. Dare concreta attuazione al principio di sussidiarietà risulta un nodo complicato da tradurre nella pratica, in particolare là dove le istituzioni di prossimità sono deboli e, conseguentemente, incapaci di contaminarsi col vivo delle pratiche che emergono dai cittadini che riescono ad aggregarsi in forma solidale. 

Incidenza sulle istituzioni pubbliche degli strumenti sperimentali di trasformazione territoriale

Nel panorama nazionale esistono diversi strumenti, come i regolamenti per l’amministrazione condivisa dei beni comuni, i patti di collaborazione, la pianificazione dal basso e altre forme sperimentali (insorgenti, emergenti, collaborative), come i contratti di fiumi, gli eco-musei, i distretti del cibo, gli osservatori del paesaggio, etc. Questi rappresentano delle opportunità per rinsaldare il patto tra cittadini e istituzioni pubbliche. Troppo spesso però sembra che questi si esauriscano nella sperimentazione e non riescano ad impattare la vita ordinaria soprattutto delle istituzioni, eccetto alcune esperienze eccellenti come in Puglia e in Toscana, dove l’esperienza di pianificazione paesaggistica e altre, fanno scuola. La prospettiva di qualcuno che opera in una regione come la Sicilia, dove l’istituzione non è pronta ad accogliere questo genere d’innovazione, solleva la questione del come fare per catalizzare certi tipi di sperimentazione. La sfida è arrivare a garantire efficacia, evoluzione e sostenibilità, e questo col sostegno di organizzazioni territoriali che emergono con fatica, come quelli prima citati e che possono fare da ossatura per il miglioramento dei meccanismi della democrazia locale, in termini di capacità dei diversi attori che co-producono il territorio, compresi quelli che operano nell’arena istituzionale. E come questo possa divenire strutturale per innescare meccanismi solidali contro la mercificazione del territorio e il disfacimento delle relazioni tra attori sociali, è un nodo non ancora risolto, su cui si cerca di ragionare e sperimentare. Esistono dei ragionamenti già maturi nel dibattito disciplinare, ma nella traduzione pratica si incontrano dei nodi. 

Tre sono le alleanze sulle quali bisogna riflettere per operare la trasformazione del territorio in bene comune: 

  1. Le alleanze all’interno delle comunità territorializzate, cioè la cura dei legami sociali territoriali, pensare all’abitante, alle relazioni solidali. Perché nelle definizioni di territorio-bene comune, anche quelle elaborate da Ugo Mattei, la categoria del comune è relazionale. Dunque, i legami, il rapporto con l’ambiente, sono centrali, sia nei rapporti tra i diversi abitanti, che costituiscono la comunità, che fra essi e il territorio, ciò che permette la territorializzazione della comunità stessa. 
  2. Le alleanze tra abitanti e istituzioni pubbliche, proprio per rinsaldare il patto di cura del territorio-bene comune, interrogandosi sullo stato di salute delle nostre istituzioni per il raggiungimento dell’orizzonte di salvaguardia della vita, aiuta a capire come gli strumenti sperimentali prima menzionati possono permeare le forme di governo del territorio nelle forme più ordinarie e strutturali. Le istituzioni pubbliche sono esse stesse bene comune, come scriveva Carlo Donolo, e il riflesso delle forme organizzative che le comunità si danno. Probabilmente la qualità interna agli ingranaggi istituzionali si riflette sulla qualità complessiva del territorio stesso.
  3. Le alleanze con i soggetti marginali e fragili della comunità, sia quelli più svantaggiati      nella geografia globale, ma pure nella comunità stessa. Poi alleanze interspecie, perché l’azione dell’uomo sul territorio ha generato nuovi ecosistemi all’interno dei quali è importante trovare forme di alleanze.  Questo è un nodo sul quale ragionare per rispondere anche alla domanda: territorio-bene comune, per chi? La riflessione implica l’introduzione della categoria della proprietà. Non sono soltanto i proprietari che hanno diritto di partecipare all’arena politica. Bisogna creare meccanismi interni alla comunità ma anche tra istituzioni pubbliche e aggregazioni della società civile che possano colmare quei divari.

 

L’amministrazione condivisa, spazio di ridefinizione cittadina e istituzionale nei territori

Emanuela Saporito propone pure un approccio di ricerca e azione, già introdotto da Giusy Pappalardo, a cavallo tra urbanistica e sociologia, puntando sull’azione diretta delle comunità sul territorio. Cioè sulla dimensione co-evolutiva tra società e spazio che A. Magnaghi ha sottolineato, perché infine il territorio è anche l’uso che se ne fa. Collegando pratiche generative di beni comuni col modello dell’amministrazione condivisa, come possibile via di governo, si dà espressione sia alle pratiche sociali di costruzione dei beni comuni che alle forme di accoglienza istituzionale. Si tratta di processi piuttosto nuovi. Il concetto di sussidiarietà è stato introdotto nel 2001 mentre il Regolamento dei beni comuni, che rimette al centro il contributo dell’abitante all’interesse generale, data del 2014. Questo ha permesso d’interpretare la sussidiarietà al di là della privatizzazione, idea diffusa negli anni 2000.  Nonostante la recente apparizione del Regolamento come strumento abilitativo, ci sono ora più di 250 comuni che l’hanno adottato. Il ridisegno delle istituzioni è molto complesso nella pratica. A chi intraprende l’amministrazione condivisa è richiesto di uscire dalla logica della delega e delle procedure – che mettono al riparo di responsabilità costituite – per ridefinirli. Così, il cittadino si ridefinisce tale nell’azione diretta di cura e l’amministratore si ridefinisce tale nel cercare una posizione paritaria. Questi contesti di ridisegno delle istituzioni in una dimensione più sussidiaria, partecipativa, avrebbero bisogno del sostegno di formazione delle amministrazioni sulla leadership, l’organizzazione interna, etc. affinché le pratiche collaborative efficaci, che ora hanno carattere eccezionale, possano, in una cornice d’amministrazione condivisa, trasformarsi in innovazioni sociale sistemica. 

L’amministrazione condivisa cornice per ridefinire il territorio come bene comune

L’analisi dei processi bottom-up di rigenerazione urbana mostra come essi definiscano il significato dello spazio urbano non dalla prospettiva del valore di scambio, ma di quello d’uso, relazionale, simbolico e culturale. In questo senso le pratiche, nella cornice dell’amministrazione condivisa, sono prima di tutto relazionali, sono pratiche spontanee di cura. Osservate in modo sistemico ci mostrano una geografia di spazi urbani che possono essere intessi come prodotti d’interazione sociale, progetti culturali che finiscono per valicare le categorie precostituite, legate per esempio al carattere privato dei suoli, ai valori catastali, di mercato, alle funzioni urbanistiche. Tali pratiche mettono in discussione l’assetto delle funzioni che definiscono gli strumenti amministrativi, che sono rigidi e lontani dalla realtà. Chi si occupa della ricerca-azione per stare nel terreno e trovare delle categorie interpretative reali, guarda all’urbano per riattivare con una logica di comuni, quegli spazi marginali, periferici, che hanno perso il significato o apparentemente esaurito il loro ciclo di vita perché legati a organizzazioni socioeconomiche della vita urbana che il sistema ha messo fuori tempo. Si tratta di pratiche di riuso degli spazi industriali abbandonati, di re-significazioni dei lotti abbandonati che non sono oggetto di investimento, spazi di scarto o i tetti degli edifici, dei quali mi occupo.  Delle critiche vengono rivolte a chi pensa alla costruzione di beni comuni occupando spazi non contesi, cioè tendenzialmente non soggetti ad interessi particolari di tipo predatorio. Ma di fatti, intorno ad essi esiste un margine di libertà, perché marginali o protetti dall’interesse dei grandi capitali. Sono contesti dove si può provare a ridisegnare la città di prossimità, di cui parlava il prof. Magnaghi. Attraverso micro-processi di generazione, si prova a ripensare gli aspetti spaziali e sociali di quelle comunità. Quindi assistiamo alla nascita di community-hub ma anche degli orti urbani. È vero che si lavora in spazi non contesi, dove non c’è conflitto tra grossi stakeholder, investitori e abitanti, ma è pure vero che queste pratiche minute sono esperienze di nuovi modelli di vita urbana. Intorno ai community-gardens, per esempio, c’è una grande attenzione all’inclusione sociale, all’approvvigionamento autonomo di cibo e all’esigenza di lavorare su un valore ambientale rinnovato, come pure al rinnovo dei rapporti tra abitanti, città e natura. Il tutto in una logica contributiva spontanea che evidenzia il protagonismo delle comunità. 

La logica contributiva e di cura si è affermata durante la pandemia

La logica contributiva è emersa in modo dirompente in seguito alla pandemia. Questa ha reso evidente la fragilità delle istituzioni pubbliche nell’affrontare problemi dove c’era bisogno di alleanze, perché la complessità non può essere ridotta, semplificata e le soluzioni non possono essere centralizzate. Ma la pandemia ci ha pure sbattuto in faccia gli effetti devastanti di un modo di vita che mette a soqquadro gli equilibri eco-sistemici, mostrando quanto la dimensione ambientale sia centrale e i beni comuni ambientali indispensabili alla salute della comunità, dei territori, delle città. Osservando il rapporto Labsus 2019-2020 che ricostruisce e mappa le pratiche di cura autonoma, attraverso i Patti di collaborazione dei cittadini in Italia, l’impressione è che gli italiani si siano accorti che è necessario ripartire dall’ambiente, dal riqualificare e prendersi cura, in una dimensione comunitaria, dei cosiddetti beni ambientali. Tanto che quasi la metà di quei Patti concernono aree verdi urbane ed extraurbane, sia giardini delle nostre città che territori ad alto valore ambientale, come i percorsi di montagna, laghi, boschi, dove si trovano pratiche di tutela che non sono orientate a estrazione di valore, ma a co-produrre valore in una prospettiva di comunità e collettivizzazione. Ad esempio, nel Parco del Po, che è un territorio molto ampio, che riguarda varie regioni d’Italia, e nel tratto piemontese che da Torino oltre Casale Monferrato attraversa vari comuni, la pandemia, secondo i sindaci, ha portato cambiamenti nella la vita del Parco.  Le persone confinate hanno scoperto le aree del parco, le hanno ripopolate e hanno iniziato ad organizzare delle pratiche di uso ma anche di cura in modo spontaneo. La pandemia ha riportato a scoprire usi diversificati delle aree protette e al tempo stesso ha dato una battuta di arresto alla turistificazione di questi luoghi. Ad esempio, nella Patagonia Argentina, dei grossi gruppi privati di turismo si sono dovuti fermare per causa pandemia e quei territori hanno cambiato funzione. Questo ci deve portare a riflettere a qual è la logica che prevale nella valorizzazione, nella tutela e nel significato di questi beni. Quale uso privilegiare, a cosa diamo la precedenza? Anche sul Parco della Favorita (Palermo) c’era questo dibattito. Il Sindaco si chiedeva se dare la precedenza alle navi da crociera con la visita al Parco o a dei processi di rigenerazione mettendo davanti il contributo delle comunità locali. 

I Patti di collaborazione coinvolgono cittadini e amministratori in una logica di co-generazione

La prospettiva dell’amministrazione condivisa apre una via di uscita alla tragedia dei beni comuni, perché mette in gioco attori che agiscono fuori dalla logica di massimizzazione del proprio interesse, dando spazio al protagonismo delle comunità locali e dei singoli. Qualcuno diceva in chat, usciamo dalla burocratizzazione del Terzo Settore, del volontario e concentriamoci nell’impegno come cittadini. Pure l’economia comportamentale dice che il paradigma dell’homo economicus è superato. Gli attori dei Patti non sono soltanto cittadini ma pure amministratori che scelgono di stare in una logica paritaria. Delle piattaforme collaborative servono a ridefinire le regole d’uso e di cooptazione dei beni, che sono contestuale e prodotto di cogenerazione. Questo implica un grande sforzo, perché bisogna reinventarsi il ruolo di amministratore, il linguaggio. Si tratta dunque di ridisegnare l’istituzione pubblica. La società della cura, teorizzata dal 2008, ha la sua origine nella presa in carica del territorio come bene comune, da tutela coinvolgendo cittadini, terzo settore, amministrazioni. Una delle questioni sul futuro è il come ricostituire la relazione tra enti pubblici e cittadini nella cura del patrimonio ambientale, capendo che il patrimonio non è un dato ma un prodotto socioculturale. 

Risposte a delle domande o commentari dei partecipanti

La capacità delle pubbliche amministrazioni di far fronte a nuove sfide

A Elena Carletti, rispondendo a Luca Raiteri (del forum Più democrazia Italia) sull’impatto del PNRR sui territori, preoccupa la possibilità di mettere le pubbliche amministrazioni di piccole e medie città in grado di partecipare e gestire le risorse che verranno. Questo vuol dire non solo la capacità di socializzare con le comunità per evitare che le scelte calino dall’alto, con dei dibattiti aperti, e decidere rispetto alle priorità e scelte delle comunità, ma anche di accedere ai fondi, che non è scontato. La PA sta pagando in termini di efficienza e di competenza la mancanza di una scuola di formazione delle sue competenze. Questo è un punto molto discusso tra i sindaci.  D’altronde, sui beni comuni, rispondendo a Claudio Mazzoccoli, c’è tanta strada da fare, sia a livello normativo che di riconoscimento. Novellara ha assunto il Regolamento sui beni comuni e tanti Patti, che spero non siano cancellati, stanno nascendo. Il protagonismo cittadino non deve essere delegato soltanto al Terzo Settore e alle associazioni di volontariato, perché c’è stata una burocratizzazione tale che l’ha ingabbiato. Bisogna ingaggiare i singoli cittadini per slegare le rigidità della burocrazia e le iniziative non racchiuse nel Terzo Settore. 

Gli strumenti per intercettare iniziativa cittadina e pianificazione istituzionale

Giusy Pappalardo, in risposta a Medis Bombaci, impegnata in Sicilia nelle lotte contro impianti non voluti, per ultimo mega impianti di fotovoltaico in aree agricole, perché costituiscono minacce ambientali, spiega che gli Osservatori del Paesaggio sono strumenti d’attuazione della Convenzione Europea del Paesaggio. Pensati per attuare la Convezione, fanno l’intersezione tra quel che viene dal basso, dai produttori di paesaggio, e le dinamiche della pianificazione istituzionale. L’osservatorio è lo strumento per adattare la Convenzione a contesti regionali specifici. Non crede che nella Sicilia, l’attivazione di tale Osservatorio, che esiste per norma dal 2019, possa consentire la permeabilità tra ciò che è rilevato a livello locale e ciò che è recepito e attuato dalle istituzioni regionali. L’Osservatorio, come altri, è uno strumento da tenere in cassetta degli attrezzi, ma la cui attuazione dipende dal contesto regionale di riferimento.

Per avere dell’incidenza trasformatrice dei territori si deve valicare la scala municipale

Per Emanuela Saporito, che non conosce a fondo il PNRR, pensa che gli strumenti di democrazia partecipativa integrata, possono aprire delle opportunità, ma l’attuazione rimane piuttosto top-down. Si deve pensare a contesti contributivi, con partner istituzionali che permettano la co-azione, la collaborazione. Questi devono valicare la scala municipale per abbracciare scale sopra comunali, anche regionali. Per esempio, gli Enti Parco collaborano con Labsus per costruire dei regolamenti sopra municipali, tema ugualmente importante per le comunità montane, dove la perspettiva ambientale valica la dimensione municipalistica. Il cambio di scala è una sfida futura.  

L’istituzionalizzazione dei concetti di beni comuni e di partecipazione non risolvono la questione, senza sperimentazione, mobilitazione e lotte cittadine

Rispondendo a Claudio Mazzocoli, sull’inserimento del concetto di beni comuni nel Codice Civile, come forma di legittimità, Alberto Magnaghi pensa che l’inclusione dei beni comuni nel Codice Civile o le leggi sulla partecipazione, cioè l’istituzionalizzazione dei nostri concetti, sia questione complessa e non risolutiva. Ovviamente, la legge deve funzionare da sponda a processi reali di costituenti territoriali. Non esiste l’efficacia della legge se non si costruisce attraverso l’esperienza, la mobilitazione, la lotta. Questo doppio binario è da tener presente, non escludendo nessuno dei due, affinché si facciano da sponda, conoscendo però le difficoltà. Alcuni esempi positivi sulla partecipazione. In Toscana, abbiamo avuto ben due edizioni della Legge sulla Partecipazione anche con esperienze interessanti, Ho condotto in diversi comuni piani strutturali, con eco-musei, mappe di comunità, tante esperienze positive di cambiamento di rotta dei Piani strutturali verso la valorizzazione del patrimonio territoriale, finanziate con la legge sulla partecipazione. La legge 65 del 2015, sul Governo del Territorio Toscano, contiene un elemento molto chiaro: l’avvio di un procedimento urbanistico dev’essere accompagnato da un processo strutturato di partecipazione, verificato dal Garante della Partecipazione. Nel Piano Paesaggistico della Puglia, per la prima volta, nelle norme tecniche c’è un Capo secondo che s’intitola “La produzione sociale del paesaggio”, evento nuovo in una normativa di un Piano territoriale, che specifica proprio le forme di partecipazione che devono essere attivate, (che a livello regionale sono molte perché non ci si può limitare al quartiere o alla dimensione locale), e che devono essere sperimentate nella fase di produzione partecipata del piano paesaggistico. L’efficacia dell’approccio dipende da come funziona l’amministrazione locale. Abbiamo una struttura amministrativa che funziona tuttora per settori separati. Dunque, la forma di produzione delle decisioni genera dei problemi e dei conflitti sull’uso del territorio. Un sistema decisionale che esclude i cittadini, come intrusi, perché non possiedono uno stabilimento o terreni per partecipare alla decisione, si traduce in pochi soggetti che propongono e ai quali si deve rispondere con un piano regolatore; da qui ad aprire una partecipazione di diritto ai cittadini alla decisione sul futuro del territorio, c’è un salto straordinario per l’amministrazione, sempre abituata a trattare solo con i proprietari, le imprese, le banche. Questo richiede un lavoro di preparazione, di superamento della vecchia cultura della amministrazione locale, che esclude i cittadini dal sistema decisionale. Ho sentito, nel corso dei miei piani, dei dialoghi fra amministratori e abitanti del tipo: lei cosa possiede, niente, e allora cosa vuole? Oppure: Perché mi si espropria questo terreno? Perché dobbiamo costruirvi attività produttive. Ma il mio terreno già produce: sono agricoltore. Erano dialoghi di qualche tempo fa, adesso abbiamo tanti esempi di iniziative, e amministratori interessati a gestire processi di partecipazione, ma la struttura amministrativa e le sue logiche e dipendenze è un’altra cosa. Spero che la sindaca di Novellara, cultore della democrazia locale, abbia influenzato i suoi funzionari nel trasformare la struttura amministrativa ad accogliere le indicazioni della Associazione dei Comuni virtuosi. 

La disimmetria tra la dinamica di una cultura alternativa e la percezione del sistema politico

Per Alberto Magnaghi, la dissimmetria qualifica la sproporzione altissima tra gli obiettivi perseguiti dall’amministrazione pubblica sui vari livelli territoriali e il mondo della partecipazione, che evolve verso forme di autogoverno, di, pianificazione pattizia, come i contratti di fiume, eco-musei, osservatori locali del paesaggio, forme d’economia solidale, di auto organizzazione nei quartieri urbani. Di fronte a questo movimento culturale di ricostituzione della figura dell’abitante, abbiamo una sordità del sistema politico rispetto all’innovazione che queste forme di mobilitazione propongono come modelli di cultura politica “dal basso”, di qualità e sistemi di vita, di cura del territorio e dei beni, di rapporti città-campagna, città-montagna, tutti modelli di sviluppo alternativo verso la costituzione di comunità concrete.  Non si tratta solo del lavoro da chi da anni parla di sviluppo locale, di auto sostenibilità, ma di esperienze diffuse, differenziate, creative. Chi lascia la città, per dedicarsi alla agricoltura di montagna, propone modelli di vita alternativi alle periferie urbane da cui proviene. Non si tratta di andare dove fa meno caldo, ma di un processo di fuga dai modelli metropolitani di vita, dove le condizioni di perifericità e di bassa qualità del vivere sono dominanti.

Creare programmi e strutture di governo alternativi a partire dei modelli partecipativi odierni  

Se si comparano i programmi delle diverse associazioni, reti nazionali dei beni comuni, cooperative sociali, strumenti di pianificazione dal basso già citati, scopriamo che hanno molti legami e punti in comune: tutti alludono a modelli di sviluppo locale alternativo, ecologico. Partendo da questi si potrebbe costruire a tavolino un programma generale; eppure, anche loro, sono divisi. I referenti nazionali di un Ministero sono diversi per i contratti di fiume, per gli ecomusei e per la legge sui beni comuni. Superare la disimmetria vuol dire provare a mettere insieme tali programmi in forme orizzontali, in un medesimo territorio. Distillare le differenze – al di là di quelle politiche – dalla sostanza che accomuna i programmi delle reti, associazioni, comuni virtuosi, l’universo a cui ci riferiamo, potrebbe portare a mettere in piedi, nei territori, delle strutture permanenti di coordinamento, di governo. Non dei partitini, ma reti di reti, che precipitino su un singolo territorio esperienze alternative su diversi settori, dall’agricoltura, all’artigianato, al turismo escursionistico, alla produzione di comunicazione, di cultura, etc., producendo strutture di autogoverno capaci di gestire programmi di futuro di un territorio in forme olistiche, integrate. Strutture per gestire l’insieme di elementi che implicano trattare il patrimonio territoriale nella su complessità e integrazione come bene comune. Bisogna sperimentare, formulare delle ipotesi. La Società dei Territorialisti che presiedo ha un Osservatorio delle buone pratiche, dove si tenta di vedere dove questo avviene. 

L’assenza di autonomia delle autonomie locali

L’altro aspetto difficile del passaggio dalle pratiche alternative alla cooperazione con le istituzioni e autonomie locali per attuare nuovi istituti di democrazia comunitaria è che queste autonomie non esistono più, tranne nella volontà e nell’azione sociale di alcuni sindaci e amministratori. Un esempio storico: Nella Val Bormida che ho citato, in presenza di un forte movimento di abitanti, donne e giovani soprattutto, che chiedeva la chiusura della fabbrica che creava morte, inquinava le falde, l’agricoltura, distruggeva il fiume, i sindaci hanno firmato un documento comune di progetto di rinascita dalla Valle, fondato sulla chiusura della fabbrica e la rinascita dei valori patrimoniali del territorio. C’è stato un processo, prima di popolo, di ricostruzione della coscienza del patrimonio, l’Università di Torino ha contribuito a redigere i documenti sul nuovo sviluppo con la valorizzazione del fiume, dei terrazzamenti, del paesaggio, dei borghi, delle produzioni tipiche, etc. e tutti i sindaci della comunità montana si sono impegnati a gestire questo piano di sviluppo alternativo, basato sulla crescita della coscienza di luogo. Tre anni dopo, con le elezioni, i sindaci si sono ridivisi per partiti e l’alleanza tra popolo e istituzioni si è sciolta; ognuno ha portato il programma del proprio partito. Questo denuncia il fatto che, oltre ad essere un’organizzazione per settori, l’amministrazione locale è anche comandata dai partiti che ne decidono centralmente le linee di azione.  Allora, dov’è l’autonomia? I sindaci difficilmente possono opporsi alle posizioni dei propri partiti e seguire i propri cittadini partecipanti a processi autonomi di formazione degli obiettivi per il proprio territorio. Il partito è nazionale (con appartenenze internazionali) e i gruppi economico-finanziari a cui il partito risponde sono globali. Insomma, le istituzioni non sono autonome per realizzare la volontà crescente delle “comunità concrete”, come le nominava Adriano Olivetti, indicando quelle che definiscono gli obiettivi nel territorio che poi vengono raccolti e sviluppati dalle comunità funzionali, a livelli superiori, costituite anche dai partiti. Dunque, contro la dissimmetria, dobbiamo rinforzare le reti per esprimere progetti complessivi e non solo settoriali e fare in modo che la nuova visione degli ’abitanti di progetti di vita produca nuove forme di politica, superi il sistema di partiti nel funzionamento delle amministrazioni locali e riesca a produrre nuovi amministratori che abbiano la mentalità del movimento nascente, quasi adulta in Italia, come per esempio il sindaco di Novellara e la associazione dei Comuni virtuosi. Che comunque, date le condizioni generali faticano a produrre un governo integrato sul territorio. Il PNRR, ad esempio, favorirà l’opposto in campo energetico di quanto proposto per lo sviluppo dalle comunità energetiche (raggruppare produzione e consumo, uso della complessità di patrimoni energetici locali integrati di energie rinnovabili, impianti decentralizzati, in comunità autogestite) peggiorando con grandi impianti industriali (di fotovoltaico ed eolico) l’uso del territorio, portando l’energia altrove, per poi rivenderla ai cittadini. Ci vogliono dei sindaci che si oppongano a questa visione e sostengano la diffusione delle comunità energetiche, da integrare come componente dei nuovi istituiti di democrazia comunitaria atti a gestire i patrimoni territoriali come beni comuni.

L’associazione Comuni Virtuosi, una rete d’innovazione, coraggio e sostegno mutuo

Elena Carletti, spiega che l’associazione Comuni Virtuosi nasce nel 2005, grazie all’iniziativa di 4 comuni, oggi ne conta 130, sostanzialmente medi e piccoli comuni o borghi. I più grandi sono le città di Parma, Trento, Forlì, Bergamo e recentemente Lecce. L’associazione, che ora raccoglie comuni dal Nord al Sud d’Italia, è nata sulla spinta dell’agire ecologico. I primi sindaci che si sono aggregati hanno stretto un patto di rispetto del territorio, soprattutto ambientale. Nel tempo si sono valorizzate anche esperienze di tipo sociale. La stessa Novellara, sulle politiche d’accoglienza, aldilà del fatto di cronaca recente che non rappresenta nella sua spietatezza l’esempio di un territorio che dal dopo guerra ha fondato la propria esistenza sull’accoglienza e il dialogo. Cosa ci tiene insieme? Lo sforzo di valorizzare l’azione di sindaci e cittadini che, in qualche modo, hanno compiuto passi coraggiosi, oltre l’opinione che si ha degli amministratori condizionati dai partiti e forze economiche. Nell’associazione c’è uno spirito di coraggio. Per esempio, il comune di San Lazzaro di Savena, la cui sindaca ha vinto recentemente una causa durata anni, perché ha contrastato la colata di cemento chiamata Idice che prevedeva la costruzione di oltre 500 appartamenti. La sindaca, al indomani dell’insediamento, si è opposta, con tutti gli strumenti legali a disposizione, ad un’idea di sviluppo urbanistico ed economico che avrebbe danneggiato irrimediabilmente il territorio. Tanti altri comuni nella associazione sono riusciti a capovolgere programmazioni che avrebbero cementificato tanti territori della penisola. Le esperienze di questi sindaci danno luogo a veri processi di contaminazione. Proprio perché ci sono tanti limiti nell’agire e nelle competenze della pubblica amministrazione, la nostra è una piattaforma che mette a disposizione delle esperienze esplorate e maturate, frutto di scelte e battaglie come contrastare una programmazione urbanistica, decisa da amministrazioni precedenti, con i rischi che comportano le reazioni delle imprese, che fanno causa, portano gli amministratori davanti ai tribunali amministrativi. Queste pratiche complesse diventano strumenti di confronto per i sindaci, per agevolare azioni analoghe. Sul tema dei rifiuti, Ponti delle Alpi, in provincia di Belluno, è un esempio straordinario di contenimento dei rifiuti e di economia circolare. Questo comune, insieme ad altri nel bacino territoriale, contrastò tanti anni fa l’insediamento di un impianto di trattamento di rifiuto molto impattante, tra l’altro in luoghi in cui la componente ambientale e attrazioni turistiche sono straordinarie. I sindaci contrastando, insieme alle comunità, questo progetto costruirono un’alternativa sostenibile. Oggi quel territorio costituisce un esempio, a livello nazionale, di quanto si possa operare applicando il concetto di economia circolare, diminuendo i rifiuti alla percentuale più bassa in tutt’Italia. Guardando al Sud d’Italia, il comune di Vicari, nella Puglia, ha costituito una comunità energetica esemplare, con l’azione del sindaco in primis che ha facilitato la costituzione di una cooperativa di comunità, rendendo autonomi centinaia di cittadini. Per socializzare queste esperienze all’interno dell’associazione, abbiamo costituito una scuola di alta formazione chiamata Scuola d’AltRa Amministrazione, aperta a tutti, amministratori, funzionari e cittadini, permettendo di contaminare tanti territori di buone pratiche, come quelle citate. L’associazione sviluppa un’azione di contaminazione ma con una struttura di scuola, proprio per mettere strumenti concreti nelle mani degli amministratori di tutta la Penisola. Questo è molto importante, oltre al fatto che promuove borse di studio per laureandi che sviluppino tesi sulla sostenibilità e le comunità dei nostri territori. Abbiamo anche progetti comuni come la riforestazione urbana con il progetto “Bosco del tempo”. Con questo mettiamo a disposizione dei nostri comuni delle professionalità, agronomi, architetti in misura di costruire dei veri progetti di riforestazione urbana, che partono dallo studio delle essenze del territorio, in modo di valorizzare aree che hanno bisogno di bonifica. Siamo già al quarto progetto. Abbiamo avuto una grande visibilità quando in marzo scorso, nel comune di Bergamo è stato inaugurato il Bosco della Memoria, evoluzione del Bosco del tempo, simbolo della tragedia della pandemia. L’associazione sostiene gli amministratori nelle battaglie più difficili, come quella della Val di Susa. Tentiamo di dare visibilità e strumenti al nome stesso dell’associazione: un sito internet descrive i progetti, dal campo ambientale al sociale, per trovare denominatori comuni nel nostro agire e modalità di aiuto mutuo. L’associazione è apartitica, i comuni sono trasversali a qualsiasi espressione politica, ma resta fortissimo il legame valoriale rispetto alla tutela dei territori e della collaborazione, coinvolgimento e protagonismo dei cittadini e delle comunità. Alcuni sindaci sono proprio l’espressione di battaglie che li hanno condotti da cittadini impegnati a cittadini con responsabilità amministrative. 

Essere comuni virtuosi non è una targa, un premio o una meta. È una responsabilità che non termina con l’avere tagliato il traguardo di un progetto o contrastato un progetto di cementificazione, si tratta di un ingaggio quotidiano che impegna i nostri amministratori non solo alla protezione dell’ambiente e del territorio, ma soprattutto al protagonismo dei cittadini e delle comunità, per rinforzare il bene comune. Un festival annuo a Colorno ci permette di confrontarci su temi d’attualità, come ora sul PNRR. Recentemente, l’associazione ha siglato una convenzione con un’agenzia pubblica fondata dal comune di Modena, AESS, che lavora sulla sostenibilità energetica. Con la convenzione, l’associazione mette a disposizione dei comuni membri le competenze di questa agenzia, anche in Puglia, Sicilia, dove i comuni tra l’altro sono i più avanzati in termini di comunità energetiche e dai quali i comuni del Nord imparano, grazie pure alla piattaforma della Scuola di AltRa Amministrazione. Questa serve a trasmettere informazione. Contaminazione e scelte coraggiose hanno bisogno di una base normativa per essere portate avanti perché senza strumenti restano degli slogan.

Giusy Pappalardo, spiega l’esperienza nella Valle del Simeto, nella Sicilia Orientale, che nasce dal progetto di lotte sociali che ha visto protagonisti diversi soggetti dalla società civile, che si sono strutturati in modo incrementale, ma pure alcuni amministratori più lungimiranti. Siamo nel 2002. La Regione Sicilia aveva programmato un piano dei rifiuti che prevedeva la costruzione di un mega impianto d’incenerimento in un’area Sic, a ridosso del fiume Simeto, nel bacino idrografico più esteso dell’isola. Nel 2008 una sinergia di lungo termine si crea tra il gruppo di ricerca dell’Università di Catania, che ho menzionato prima, e la società civile che voleva andare oltre la mobilitazione sociale contraria all’impianto, per costruire forme di sviluppo alternativo ai modelli dominanti. Tale sinergia si crea con l’idea di costruire un percorso di lungo termine, partendo dalla costruzione di una mappa di comunità per mettere a sistema diverse visioni e percezioni. Si veniva fuori dalla discussione sulla Convenzione del Paesaggio, e poi di quella di Faro del 2005, di costruzione di comunità d’eredità che diventano d’azione. Nel 2009 si costruisce la mappa senza avere chiaro quale strumento far atterrare nel territorio. La partnership, tra società civile organizzata e università, tenta d’ingaggiare quegli enti locali che mostravano, anche se con timidezza, interesse in ciò che si strutturava, con una serie di documenti concreti scritti dal basso. Nel 2013, si mette a fuoco l’idea di costituirsi come Patto di Fiume, che s’inquadra nel dibattito nazionale sui Contratti di Fiume. Dunque, il primo strumento che atterra nel territorio in modo sperimentale è il Patto. Nel 2015 questo viene formalizzato in una Convenzione Quadro più strutturata. Nel frattempo, soltanto una parte di quel territorio viene selezionata come area sperimentale di rilevanza nazionale per la Strategie delle Aree Interne, creando una serie di squilibri e di conflitti interni.  Dal 2015 la società civile si struttura meglio intorno alla Convenzione e al Patto del fiume Simeto, che ha una   durata di 3 anni. La strutturazione si fa seppur con una serie di limiti e parti non attuate per opposizione da parte di chi non è convinto della sua validità. Così, la Convenzione, che non è riuscita a creare una sinergia piena e compiuta, è attuata parzialmente. Tra il 2018 e oggi siamo in fasi di stasi e di revisione della Convenzione, introducendo dei fattori correttivi che sono emersi dalla complessità di fatto. In questa stessa fase è emersa la volontà di testare un altro strumento: l’eco-museo. Nel frattempo, dal 2016 sono nati una serie di gruppi che si sono coagulati intorno all’idea di sovranità alimentare, dando spazio alla nascita di un nuovo strumento: il bio-distretto. Come questo, stanno nascendo altri strumenti che si incastrano e tentano di lavorare sinergicamente, nel tentativo di consolidare la cornice che si era identificata nella Convenzione. Alcuni degli amministratori degli undici comuni lungo il corso del Simeto sono determinati a portare avanti il percorso; quindi, sono gli alleati per poter costruire una strategia territoriale. Ciò che a noi ricercatori preme, dopo anni, è di mantenere la dimensione della bioregione fluviale compatta, sia da un punto di vista fisico che morfologico e culturale, sebbene la rispondenza a livello amministrativo non sia omogenea. Alcuni comuni sono più aperti alla società civile e altri più chiusi, con approcci più convenzionali. Questo è lo stato dell’arte. L’eco-museo è una ricostituzione critica della memoria che può aiutare ad allargare il cerchio del coinvolgimento, soprattutto nei tessuti sociali più fragili, anche con azioni semplici, come perfezionare la mappatura e ingaggiare degli enti locali che si erano persi. La sfida è sempre quella di mettere a sistema gli strumenti creati dal basso e che con difficoltà arrivano ad incastrarsi negli assetti istituzionali consolidati. 

Riformare la politica e educare i partiti a una relazione col territorio è per Emanuela Saporito una necessità centrale da cui si discute da tempo. E un tema caro a lei, essendo attiva dentro i partiti, che sono delle istituzioni che ritiene debbano mantenere una loro funzione. Un articolo di Giovani Moro fa un’analisi interessante della relazione tra vita e politica in una dimensione rinnovata dalla forma di cooptazione alle quali siamo tradizionalmente abituati. Le pratiche di cura condivisa che si espletano in vari territori, come quelle dei comuni virtuosi, nel Simeto, ma anche alcuni Patti di collaborazione particolarmente sfidanti, sono contesti dove si forma una nuova classe politica. Perché quelli che firmano, sindaci, amministratori o funzionari, rappresentano la cosa pubblica e sono anche essi portatori d’interessi pubblici e di cultura politica. Per cui le pratiche minute territoriali danno la possibilità di ricostruire una cultura di politica sana, con valori calati sulle esigenze, i bisogni e le domande dei territori. Un esempio di come il Patto di collaborazione possa diventare uno strumento cornice per tutela e valorizzazione di beni comuni ambientali, è quello del Parco delle mura di Siena. Il processo di rigenerazione, riqualificazione è culminato nella firma di un Patto, che ha visto il protagonismo di cinque organizzazioni sociali, alcuni grandi come Legambiente, ma anche comitati dei cittadini e patti di abitanti, che hanno preso parte ad un percorso molto virtuoso e complesso di ricupero nell’area di Valle Fosso, che va nella direzione di territorio bene comune. Li si sono trovate soluzioni progettuali di percorsi ciclopedonali anche attraverso aree private. C’è stata una vera socializzazione del patrimonio, per lo meno nell’uso se non negli aspetti proprietari. Comunque, si tratta di un intervento che cambia la funzione e la percezione del paesaggio. Il processo iniziato nel 2017 è ancora in corso. Un nodo critico della dimensione partecipativa di questo Patto e di altri è quello di rimanere aperti, dando a qualsiasi altro soggetto la possibilità di partecipare, dentro l’accordo di collaborazione, proprio per superare la logica della convenzione, che in alcuni casi diventa forma di privatizzazione. Nel Patto delle mura di Siena, questa proposizione avrebbe dovuto realizzarsi tra il 2020-21. Vedremo il risultato. Un altro aspetto interessante dei Patti è innescare microeconomie locali che vanno nella direzione della protezione del patrimonio ambientale-naturalistico e nella prospettiva d’impatto locale. Nel caso del Patto delle mura, c’è una componente di agricoltura di comunità, di aziende agricole locali che utilizzano una parte delle loro entrate per reinvestire in quel territorio. In altri casi come a Condove, l’attività di pulitura dei sentieri, che è stato oggetto d’attività volontaristica, si è intersecata con un Patto di collaborazione con un’associazione che si occupa di Free Mountain, di attività libere di montagna in bicicletta. Questo ha aperto l’opportunità non solo per recuperare i sentieri, ma per portare un’attività d’animazione culturale e sportiva su quel territorio, che diventa stimolo alla manutenzione. Questa intersezione ha avuto come esternalità positiva l’apertura di piccole attività commerciali locali, una panetteria, un negozio di biciclette nel centro del paese. Processo che è osservato e curato da un sindaco, che fa parte di un partito: il Patto è diventato opportunità per ripensare la cultura politica, nella prospettiva di maggiori legami con le esigenze territoriali. Quindi è importante la suggestione di lavorare alla formazione degli amministratori, a tutte le scale e livelli, anche incrociando varie scuole di formazione. In effetti, dentro questa relazione di confronto tra diversi istituti della nostra democrazia si gioca la possibilità di rinnovarsi, di raggiungere una prospettiva più adeguata alle esigenze di modelli di vita alternativi, più equi. 

Gilda Farrell

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  1. beppe pal 29 Settembre 2021 at 03:35 - Reply

    Nulla a che vedere con l’articolo
    Because something is happening here
    But you don’t know what it is
    Do you, Mister Jones?
    B. Dylan e piaceva tanto al Black Panther Party della self-defence, distrutto da E. Hoover e omaggiato da W. Allen e altri.
    Pure Burioni invita a sottoscrivere il referendum… allora perchè avete cancellato quanto ho predetto, da fatti storici, di Burioni?
    O si deve pensare che Burioni sia il Vs modello, o che quello che dice Burioni è dettato dalla paura?
    Poi perchè non valutate che alla dialettica non si risponde con autoritarismo?
    si parva licet

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